Al di là della Ragione

Ligabue manifesto

GABRIELLA VERGARI.

La bocca aperta nello sforzo, al limite dell’umano, di articolare  i suoni di un personalissimo linguaggio con la natura e gli animali; gli occhi febbrili di luci intense, proprie, difficili da decifrare; il volto scavato e ossuto, in un corpo sgraziato, rachitico, quasi inselvatichito, avvolto in un pastrano consunto; uno specchio con una cornice di plastica azzurra al collo: questo il primo impatto con l’uomo.
Quindi le tele ed i vari tabloid didascalici, e allora comprendi le ragioni del titolo: Tormenti e incanti, scelto dai curatori, S. Parmiggiani e S. Negri, per la mostra monografica su Antonio Ligabue (Zurigo1899 – Gualtieri 1965), attualmente allestita al Palazzo dei Normanni di Palermo.
E sono gialli, bruni, verdi, terre di Siena e bianchi di zinco, in pennellate decise e precise, dense fino a farsi a volte materiche, che trascinano in un altrove spesso esotico – probabilmente ripreso dalle figurine Liebig, in una coi libri illustrati sugli animali (a partire dal Brehm), popolato di felini e predatori con le fauci spalancate o le zanne bene in vista o le ali spiegate in attacchi micidiali e rapaci. Si sente, forte e dominante, il motivo della sopraffazione, in questi lavori dell’artista, nell’istintiva consapevolezza d’una darwiniana lotta per la sopravvivenza e la legge del più forte.

I ghepardi e le tigri si muovono sicuri tra la vegetazione della jungla, pronti all’attacco fino a mostrarsi contorti nello slancio.  I corpi non posano, non riposano, non si abbandonano, non languono nemmeno se vinti, sempre e in ogni modo attraversati da un dinamismo che diviene pura energia vitale e potenza.

Perfino in un coniglio pezzato che, sullo sfondo di verdi via via viranti al blu attraverso una sottilissima striscia d’ ocra, ti osserva dalla tela, guardingo come solo i conigli sanno esserlo, con le orecchie dimesse ed i sensi all’erta, senza tuttavia mostrarsi sconfitto. Triste, piuttosto, o forse rassegnato ad un destino perdente, eppure a suo modo pugnace e disposto a non lasciarsi sopraffare senza tentare una difesa.

“Gli animali hanno in fondo il suo sguardo” si sussurra in giro.
Ed è vero. Tanto il coniglio quanto la volpe, l’aquila, le tigri sembrano tutti volti di un pittore che, pur in una ricorrente e conclamata alienazione, ha cercato continuamente se stesso, lasciando centinaia di autoritratti e tracce e segni dovunque  e comunque gli fosse possibile: dalle argille del Po, per le sculture, alle tavole di compensato e faesite, per i dipinti, perfino alla carta intestata dell’Ospedale Psichiatrico S. Lazzaro di Reggio Emilia come, ad esempio, rivela la china con pastelli a cera, Tigre reale, di questo allestimento

Ancora una volta un connubio tra malattia mentale e creatività artistica, che già Van Gogh aveva qualche decennio prima  incarnato e che con Ligabue si conclama al punto da sollecitare l’indagine della critica e non solo: può esserci (come del resto dubitarne?) un  fil rouge tra arte e follia? Non l’enthysiasmòs di ellenica memoria, né l’invasamento divino, ma proprio il disagio clinico, la depressione, la schizofrenia, le sindromi di una personalità disturbata?

Museo della Follia, è perciò, non a caso, il titolo dell’evento attualmente ospitato al Castello Ursino di Catania e curato da V. Sgarbi, con la consulenza scientifica del Centro Studi & Archivio Antonio Ligabue di Parma ed in particolare del Presidente A. A. Tota.Visitarlo è un po’ immergersi in un universo parallelo al confine tra visionarietà ed incubo. Molte le tele del pittore di Gualtieri, compreso il raro autoritratto in cui Ligabue si raffigura per intero, con gli abiti “buoni” del proprio, seppur tardivo, riscatto.

Ma non meno intense quelle di un altro artista, Pietro Ghizzardi (Viadana 1906- Boretto 1986), che operava a circa dieci chilometri da Gualtieri, chiuso nel proprio isolamento domestico, ed insieme ossessionato dalla figura femminile, in un empito erotico destinato a rimanere insoddisfatto. Suoi i segni di una personalissima tecnica da autodidatta, e soprattutto i materiali – di norma cartoni da imballaggio – con colori estratti di persona da erbe varie, ed un bestiario ancora rivolto al mondo dei felini, pur se con fogge e tinte ben diverse da quelle del contemporaneo Ligabue, mai del resto conosciuto né contattato, nonostante la brevissima distanza che li separava. E tuttavia qui, Antonio e Pietro si ritrovano idealmente accostati, l’uno ad aprire, l’altro a concludere un percorso che vuole tanto rendere loro omaggio, quanto  pagare un tributo a “uomini e donne come noi, sfortunati, umiliati, isolati … condannati senza colpa, incriminati senza reati per il solo destino di essere diversi, cioè individui”, come Sgarbi ci ricorda dal pieghevole della mostra.

Così, gli allestimenti ispirati alla tristissima e non di rado degradata realtà dei manicomi, i disegni ed i dipinti realizzati all’interno di camere d’isolamento, gli oggetti e gli effetti personali  dei pazienti si intersecano a volti smarriti e sguardi dissennati, spersi all’interno di dimensioni altre, impenetrabili, laddove  le provocazioni di C. Inzerillo ci presentano sculture mummificate di dementi, infermieri e primari macinati da un sistema stritolante, in un’impari lotta contro il dolore e la sofferenza.

A tratti si avvertono voci e note musicali, finché non si giunge ad una griglia a parete intera in cui il neon incornicia, ad intermittenza, novanta ritratti di altrettante cartelle cliniche, forse a rammentarci che solo l’arte riesce lì dove la razionalità si arresta, rivelandoci i segreti più riposti delle vite e della vita.