“Un barbaro non privo di ingegno”: William Shakespeare

william_shakespeare (da Wikimedia Commons)

William Shakespeare (da Wikimedia Commons)

STEFANO CASARINO.

Così scrive il nostro Alessandro Manzoni nel settimo capitolo dei Promessi Sposi:  Tra il primo pensiero d’una impresa terribile e l’esecuzione di essa (ha detto un barbaro non privo d’ingegno)  l’intervallo è un sogno, pieno di fantasmi e di paure : il riferimento è ad una scena – esattamente la prima scena del secondo atto – del Giulio Cesare di Shakespeare, ma quello che interessa è la definizione tra parentesi, che ricalca il giudizio formulato da Voltaire e che creò però problemi a Manzoni, perché il traduttore in inglese del suo romanzo, Charles Swan, non ne intese l’ironia e se ne risentì.

Il risentimento fu, certamente, eccessivo; ma come non rilevare che nell’Italia dell’Ottocento Shakespeare era ancora un autore quasi sconosciuto, una sorta – tanto per restare all’ironia manzoniana – di Carneade della letteratura?

È solo dalla seconda metà del Settecento che la cultura italiana inizia ad interessarsi del Bardo per antonomasia (fu Georg Bernard Shaw a definire proprio bardolatry, “bardolatria”, il culto – secondo lui eccessivo – che veniva tributato a Shakespeare) : tra i suoi primi traduttori vi fu Alessandro Verri (1741-1816).

Bisognerà però aspettare il pieno Ottocento per poter parlare di reale diffusione – anche popolare, grazie anche al non trascurabile contributo del melodramma, da Bellini (I Capuleti e i Montecchi) a Verdi soprattutto (Macbeth, Otello, Falstaff e il sogno mai realizzato di trarre un’opera anche dal Re Lear). Come stanno oggi le cose?

Se è esistito davvero – dal momento che si sono avanzati non pochi dubbi sulla sua reale identità –, la biografia tradizionale ci offre lo stesso giorno (il 23 aprile) per la nascita (avvenuta nel 1564 a Stratford-upon-Avon) e la morte (nel 1616, ma, guarda caso, sempre nello stesso luogo): il 23 aprile è una data molto sospetta, perché è in Inghilterra il giorno nazionale di S.Giorgio, patrono della nazione. Sia come sia, è anche il giorno della morte di Cervantes e per questo l’Unesco lo ha scelto per la Giornata Mondiale del libro e del diritto d’autore (risoluzione del 15 novembre 1995), che non poteva, ovviamente, non essere celebrata anche da Margutte!

Oggi che tutto il mondo parla (e spesso straparla!) inglese, Shakespeare è – per dirla con le parole un po’ forti di Harold Bloom nel suo Il canone occidentale (1994) – “la figura centrale del Canone Occidentale… più centrale alla cultura occidentale che non Platone e Aristotele, Kant e Hegel, Heidegger e Wittgenstein” e, addirittura secondo lui, “il massimo scrittore che mai conosceremo”, con buona pace di Dante, Goethe, Tolstoj e compagnia bella. Anzi, a dire il vero, almeno Dante – sempre secondo Bloom – è l’unico degno di tenergli compagnia in quanto essi “costituiscono il centro del Canone perché superano tutti gli altri scrittori occidentali in fatto di acutezza cognitiva, energia linguistica e forza di invenzione”. Meglio, però, fermarsi qui: perché giudizi così adoranti e – sia detto con tutta franchezza – così eccessivi sortiscono spesso l’effetto opposto, ci allontanano invece di avvicinarsi all’Autore. Vero è, invece e senza dubbio, che Shakespeare deve essere assolutamente conosciuto, che dovrebbe entrare anche nei nostri programmi di letteratura – non solo inglese –, se davvero si vuole privilegiare un’ottica europea; i suoi drammi e le sue commedie devono essere viste a teatro, ma anche i suoi sonetti devono essere maggiormente conosciuti.

Per questo ne offriamo uno (il 23) ai lettori di Margutte, nel testo originale e in traduzione, con l’auspicio che possa far venir voglia di leggere tutti gli altri.

As an unperfect actor on the stage
Who with his fear is put besides his part,
Or some fierce thing replete with too much rage,
Whose strength’s abundance weakens his own heart.
So I, for fear of trust, forget to say
The perfect ceremony of love’s rite,
And in mine own love’s strength seem to decay,
O’ercharged with burden of mine own love’s might.
O, let my books be then the eloquence
And dumb presagers of my speaking breast,
Who plead for love and look for recompense
More than that tongue that more hath more express’d.
O, learn to read what silent love hath writ:
To hear with eyes belongs to love’s fine wit

Come un cattivo attore sulla scena
che, preso dalla paura dimentica la sua parte,
oppure come una furia gonfia di troppa rabbia
che sfinisce il proprio cuore per impeto eccessivo,
anch’io, sentendomi insicuro, dimentico di dire
l’esatta celebrazione del rito d’amore,
e alla sommità del mio amore mi sembra di cadere
schiacciato sotto il peso della sua potenza.
Siano allora i miei versi l’unica eloquenza
e i muti messaggeri della voce del mio cuore,
che supplica amore e attende ricompensa
ben più di quella lingua che sempre di più parlò.
Ti prego, impara a leggere cosa ha scritto un silente cuore:
sentire con gli occhi è fine intelletto d’amore.