Al Cärga

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GUIA RISARI

Non è passato tanto tempo, lo so, ma a me sembra un secolo. Chi ero, cosa ero non esiste più. Sul passato è scesa una cortina spessa che non posso più sollevare. Peggio della nebbia che avvolge le terre in cui sono nato, più fredda e feroce. D’altra parte, a cosa servirebbe rivangare? Farsi male coi rimpianti non è nella mia natura. E nemmeno provocare sgomento o terrore. Certi passi sono irreversibili e io non posso tornare indietro. Lo sapevo fin dall’inizio. Resta quel che sono oggi, per molti versi un miglioramento della mia condizione iniziale. Se non altro, mi allunga l’esistenza di parecchi anni. E mi mette in una condizione di relativa libertà.

Però, inevitabilmente, ho perso qualcosa. Non solo pelle, ossa, articolazioni. Ho perso qualcosa di impalpabile, dei sentimenti che esistono solo tra i miei simili e che gli uomini ignorano.

Sono indubbiamente un altro, radicalmente trasformato. I cambiamenti non si misurano con il metro lineare delle quantità, come dei semplici mutamenti di situazione e stato. Si valutano per le nuove emozioni, i pensieri, le speranze.

Se dovessi fare una lista di quel che non è più e di quello che invece è, sarebbe sin troppo semplice e alla fin fine risulterei un perdente. Vediamo un po’… Non sono più quadrupede, artiodattilo, grufolante, ricoperto di setole, dotato di coda, grugno e zanne. E invece sono bipede, parlante, glabro. Tra una condizione e l’altra continuo a restare mammifero e onnivoro. Queste caratteristiche comuni sono abbastanza – mi chiedo – per gettare un ponte tra due esistenze così lontane? Forse no.

Dal punto di vista materiale, tra le mie due vite non c’è che un debole legame; dal punto di vista spirituale ed emotivo, c’è un abisso.

Ma, visto che racconto una storia a voi che non siete delle mie parti e non mi conoscete, a voi che probabilmente nemmeno mi crederete, vado con ordine e comincio dall’inizio.

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Sono nato sei anni fa, in una pianura umida e fertile, di quella terra nera e grassa che basta sputarci su per far crescere un germoglio. Terre così le invidiano in tutto il mondo e hanno regalato alla gente una certa bonomia, una serenità che deriva dall’esser sempre sazi o dal credere di esserlo. Perché qui, anche quando c’è poco da mangiare, si ha comunque l’impressione del cibo e questo ha un effetto calmante.

Sono nato da una grande madre bionda con mammelle gonfie come sederi. Eravamo dieci fratelli e io ero tra i più forti. La natura è la natura e la fame risponde solo ai suoi imperativi, per cui non mi facevo scrupolo a bere la mia dose di latte e quella dei fratelli più deboli. In quello stadio, non conoscevo coscienza, rimorso o pentimento. Non sapevo proprio cosa fossero. Sentivo solo la vita, la vita che spingeva il mio corpo ad agire, a prendere, a succhiare, a spingere, a lamentarmi, a minacciare. Ero un lattonzolo, piccolo, roseo e prepotente, come tanti. Più fortunato, però, perché quando una mano robusta e sporca si chinò su di noi, non fui io a essere portato via. Venni sì soppesato, ma ebbi la buona idea di lasciare andare una pioggia di escrementi e questo mi salvò la pelle. Più tardi imparai che sono i sentimenti più ignobili – lo schifo o la paura – che garantiscono la sopravvivenza nel porcile e diventai il maiale più sporco e intrattabile del gruppo. Mi rotolavo nella cacca mia e degli altri, mi spruzzavo di piscio e, se qualcuno si avvicinava, abbassavo la testa e caricavo. “Va m’l cärga! Al pär un tor!” rideva il padrone soddisfatto. Era uno che apprezzava l’aggressività, la considerava come una caratteristica vitale, un segno di buona salute. Però, mi stava alla larga e quando doveva avere a che fare con me chiedeva sempre una mano a qualcuno.

Mia madre partoriva una cucciolata via l’altra per assecondare il padrone e garantire la propria sopravvivenza. Non era certo felice di vedersi portare via i figli appena nati o di pochi mesi, figli che avevano appena avuto modo di annusare i piaceri della vita e già dovevano prepararsi a dirle addio, senza mai aver assaporato una bella corsa in un prato o un sano accoppiamento. Figli innocenti, congelati per sempre in quell’istante di purezza che precede ogni calcolo e pianificazione, creature dell’istante, capaci di seguire il loro boia con uno scodinzolio fiducioso. “Z’vdema!” ci gridavano nel grufolo confuso delle proteste e dei saluti. “Divertìv’!” strepitavo. “A mai più!” bofonchiavo tra me, senza farmi sentire. Sapevo dove erano diretti e mi sembrava doveroso regalar loro un’ultima illusione. Quanti ne ho visti partire così, ordinati in fila indiana o al massimo in fila per due. Una marcia trotterellante verso l’annientamento, un ingenuo desiderio di libertà che paradossalmente si realizzava perché quei cari porcellini sarebbero stati svestiti dalle loro spoglie mortali e alleggeriti da ogni preoccupazione e vincolo terreno, sarebbero diventati puro spirito, idea, ricordo. Più nessuna dipendenza dalle necessità fisiologiche, più nessun dolore, nessun limite. In qualche modo, loro erano padroni della loro vita, anche se questa era finita. Per noi, invece, che restavamo nel porcile, era tutta un’altra faccenda. Avevamo uno spazio limitato, dei tempi prestabiliti per ogni attività – mangiare, dormire, riprodurci, sgambettare – e soprattutto delle gioie misurate dalle necessità altrui. Io, vista la mole e il caratteraccio, ero stato assegnato all’accoppiamento. Maschio riproduttore. Il Cärga anche per questo. Prendevo la rincorsa e, hop, con un balzello raggiungevo il paradiso che, comparato a quello degli uomini, è mille volte più solido e più bello. Nel nostro paradiso di maiali, per quanto controllato dagli uomini, è un incontro tra pari, un incontro gradevole tra fragranze sconvolgenti e gorgoglii di soddisfazione. L’attimo sostituisce l’eternità, il piacere la santità. Comunica la nostra pelle, la nostra carne, comunicano le nostre setole e le cellule che ci compongono. Si uniscono non solo i corpi, ma le storie, i ricordi, le sensazioni, i sogni e le speranze. È difficile da spiegare con le parole. Le parole sono pallide imitazioni della vita, frammenti inadeguati del flusso dell’esistenza. Sarebbe più facile per me cantare o eseguire una danza. Con le parole diventa tutto una finzione e non si sa mai con certezza cosa si sta dicendo. Invece tra maiali ci si intende a frasi brevi, suoni e richiami, posizioni, espressioni, odori e fatti. La comunicazione è totale e senza ambiguità. Ci si può concedere una menzogna pietosa, come la mia ai porcellini diretti al macello, ma quella è un’altra storia. E poi io ero l’unico ad avere questa doppia visione, lo ammetto distaccata, un po’ di suino e un po’ di uomo. Già allora, insomma, pur indossando i comodi panni del verro, riuscivo a mettermi nella pelle innaturalmente liscia dell’uomo e a considerare le cose dal suo punto di vista. Per lui eravamo esseri indegni, ridicoli, grotteschi, da consumo. Eppure su di noi era basata la sua prosperità. Questo lo obbligava quindi a comportamenti quantomai contraddittori: a vegliarci come una mamma premurosa, salvo poi venderci al macellaio; a chiamarci per nome, senza però esitare a tatuarci un numero; a preoccuparsi per la nostra salute, per poi farci accoppare brutalmente; a vantare la nostra grassa bellezza, già pronto a tarare la bilancia. Non doveva essere facile neanche per il padrone regolare quel magma di emozioni contrastanti, quell’amore-odio che lo teneva unito ai suoi maiali. Ho già accennato a lui. Era un uomo asciutto, sporco e brutale quanto basta. Però passava tante ore in porcilaia e non per lavorare. Passava il tempo a guardarci e a parlare con noi. Un po’ si lamentava, un po’ ci raccontava di sua moglie o dei figli, ma soprattutto sospirava e bestemmiava contro la vita. Si rivolgeva spesso a me. “Tu, al Cärga, sei fortunato, tu. Non hai mica da lavorare, non hai mica da mantenere una famiglia. Mangi, dormi, scopi. Co’ t’ manca a ti?” Io grugnivo e nella mia lingua suina lo insultavo. Lui credeva che lo compatissi. “Sei un amico, Cärga, più di un amico, ’n fradel’!”

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Finché un giorno mi ha fatto la proposta. “Fèma cambi, al Cärga. Io questa vita l’ho già vista, mi manca la tua. Tu con la mia ti guadagni un po’ di annetti… Pensaci.”

Io non ho chiuso occhio per due giorni, ma al terzo avevo deciso. Perché no? Perché non provare? Il padrone era fuori di sé dalla gioia. Mi ha insegnato come si fa. È una procedura molto delicata e dolorosa. Se sbagli, ti puoi anche ammazzare. Oltretutto deve durare pochissimo tempo. Lui si è tolto la pelle; io l’ho imitato. Lui ha messo la mia pelle, io la sua. “Indietro non si torna” sono state le sue ultime parole e poi un lungo grugnito. Io mi sono sollevato sulle gambe e gli ho dato una grattatina sulle setole della testa. Lui quasi mi ha morso. Era davvero entrato nella pelle del Cärga. Allora sono saltato fuori dal porcile e ho respirato la mia prima notte da uomo. Ma l’aria era scipita e anche i rumori del bosco mi arrivavano attenuati. La rugiada sull’erba mi solleticava i piedi, strane appendici, così indifese e buffe! Raccolsi una ghianda, la morsi, ma aveva un gusto amaro e la buttai via. Le stelle brillavano perfide e io, per la prima volta in vita mia, fui invaso da un’immotivata infelicità. Fu allora che capii cos’era un uomo.

(Foto di Guia Risari)

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