Kronos e kairòs

cronos

FRANCO RUSSO.

SPERO, PROMITTO, IURO
REGGONO L’INFINITO FUTURO.

Quid sit futurum cras, fuge quaerere. (Orazio, dalle Odi, 1, 9, 13)
Non cercar di sapere quel che avverrà domani.

Tempus edax rerum. (Ovidio da Metamorfosi, XV, 234)
O tempo, divoratore delle cose!

Dal momento che, per mestiere, ho una certa facilità ad accedere al Rocci, antico dizionario di greco in uso da molte decine di anni nei licei, prima di provare a scrivere qualcosa sul tema mi sono documentato.

Così ho colto in fallo il nostro anfitrione[1] scoprendo che il titolo ha una grave lacuna: per gli antichi greci i “tempi” non erano due ma tre.   Tre modi di indicare il tempo: aiòn, kronos e kairos.

Aion rappresenta l’eternità, l’intera durata della vita, l’evo; è il divino principio creatore, eterno, immoto e inesauribile; la frase greca, tratta dal Nuovo Testamento “ eis tous aionas ton aionon”  viene tradotta in latino “ in saecula saeculorum” . E non traduco.

Il tempo che passa, nelle sue dimensioni di passato presente e futuro, lo scorrere delle ore,  è kronos.

Il tempo opportuno, l’attimo che fugge, il tempo del destino o del predestino, la buona occasione, il momento propizio è, invece, kairòs. Che è anche, però, il Tempo nella sua dimensione di sacro, il tempo senza tempo. Quello che, nell’iconografia tardo-antica, era rappresentato come un giovinetto con un ciuffo di capelli lungo sulla sommità della testa. A significare che, afferrando con destrezza quel ciuffo, si poteva cogliere l’attimo.

Vi lascio con il dubbio se chi ha deciso il tema di questo incontro non lo sapesse oppure se, con insolita generosità, non abbia deciso che arrampicarsi sull’eternità fosse davvero impresa superiore alle nostre deboli forze. A meno che – e vi metto sull’avviso – con premeditata perfidia, tra qualche anno, qualcuno non deciderà che, essendo trascorso un kronos sufficiente sia arrivato il kairòs per parlare di aiòn.

Che cosa è il tempo? La nostra vita è scandita da spazio e tempo. Il primo è chiaro e fermo e non ci lascia troppi dubbi: sappiamo quasi sempre dove siamo. Sul secondo, invece, discutiamo all’infinito anche perché il tempo, non  fermandosi mai, è inafferrabile. Il presente è subito passato  ed il futuro diventa, per un breve attimo, presente ma, appena dopo, è già  passato. E, su questo punto, Agostino aveva già detto tutto: “ ma di quei due tempi, passato e futuro, che senso ha dire che esistono, se il passato non è più e il futuro non è ancora? E, in quanto al presente, se fosse sempre presente e non si trasformasse nel passato, non sarebbe tempo, ma eternità” (da Confessiones, XI). Se è così provo a  forzare la mano e a pensare che l’arco  che congiunge il passato al futuro potrebbe essere il kronos mentre  il presente sarebbe il kairòs, quell’attimo che, come dice Marcel Jouhandeau, “occupa lo stretto spazio tra la speranza/futuro ed il rimpianto/passato”.  E se è così eliminiamo subito ogni aura di sacralità: niente tempo sacro e divino ma solo l’attimo da vivere, da godere, da soffrire, da piangere e da ridere; insomma il tempo delle emozioni, dei sentimenti e delle occasioni; il tempo dei  ladri, degli amanti, degli assassini e degli assassinati, dei tradimenti e dei miracoli, del goleador e del portiere battuto. Il bambino che ruba la cioccolata approfittando dell’assenza della mamma, il borseggiatore con destrezza, il momento in cui il killer preme il grilletto e quello in cui la vittima sente le sue carni dilaniate, l’attimo dell’orgasmo sintonico degli amanti, quello in cui, nella partita di calcio, si gonfia la rete della porta, quello in cui il medico ti dice “è cancro”, oppure ti dice “ non è cancro”.

Andiamo a cercarli qualcuno di questi attimi fuggenti magari in letteratura. Quella letteratura in cui poeti, romanzieri e giornalisti celebrano gli attimi incorniciandoli di suspense, fotografando momenti di amore e morte, descrivendo emozioni, paure, delusioni, gioie e dolori. E qualcuno, particolarmente bravo, riesce a metterle tutte in pochi versi.

Vediamo come il poeta  Umberto Saba riesce a  santificare il kairòs del goal descrivendo sentimenti ed emozioni di protagonisti e spettatori.

GOAL

Il portiere caduto alla difesa
Ultima vana contro terra cela
La faccia, a non veder l’amara luce.
Il compagno in ginocchio che l’induce,
con parole e con mano, a rilevarsi,
scopre pieni di lacrime i suoi occhi.

La folla – unita ebbrezza – par trabocchi
nel campo. Intorno al vincitore stanno,
al suo collo si gettano i fratelli.
Pochi momenti come questo belli,
a quanti l’odio consuma e l’amore,
è dato, sotto il cielo, di vedere.

Presso la rete inviolata il portiere
- l’altro – è rimasto. Ma non la sua anima,
con la persona vi è rimasto sola.
La sua gioia si fa una capriola,
si fa baci che manda di lontano.
Della festa – egli dice – anch’io son parte.

Il portiere sconfitto soffre e piange, il compagno, solidale, cerca di consolarlo, la folla di spettatori gioisce e si esalta, il goleador mescola il suo piacere con quello dei compagni in un gruppo di festa, l’altro portiere, solo, segnala al mondo, con una capriola, il suo esserne parte.
Tutto in un attimo, in un istante di magico tempo e tutto al tempo presente: ecco un esempio di kairos.

Ne La guerra di Piero di Fabrizio De Andrè:
Sparagli Piero, sparagli ora e, dopo un colpo, sparagli ancora fino a che tu non lo vedrai esangue, cadere in terra e coprire il suo sangue. Ma se gli spari in fronte o nel cuore soltanto il tempo avrà per morire ma il tempo a te resterà per vedere, vedere gli occhi di un uomo che muore. Il kairòs della morte, di chi uccide, di chi muore e di chi vede morire, di chi soffre, di chi si prepara al rimorso. Un attimo.

Ovidio, nelle Metamorfosi, ci racconta la storia di Filemone e Bauci, una coppia di anziani sposi che, unici tra gli abitanti della loro terra, accolgono nella loro modesta capanna e condividono lo scarso cibo con gli dei in incognito Zeus e Mercurio.
E Zeus, una volta svelatosi, li invita ad esprimere un desiderio che, dopo una rapida consultazione, è questo:
“Chiediamo di essere sacerdoti e di poter custodire il vostro tempio; e siccome abbiamo trascorso insieme d’amore e d’accordo tutta la vita, desideriamo di morire nel medesimo tempo, cosicché io non debba vedere il sepolcro della mia sposa, né essere da lei sepolto.”
E così fu fatto. Poi, giunti al termine della vita, si trovarono per caso sui gradini del tempio a narrarne la storia ai visitatori. A un tratto Bauci vide Filemone mettere fronde, mentre il vecchio Filemone, dal canto suo, vedeva le membra di Bauci irrigidirsi e metter fronde anch’esse. Intanto che la cima degli alberi cresceva, i due sposi si scambiavano parole di saluto, fino a quando fu loro possibile. E, nell’attimo estremo le fronde dei due alberi si congiunsero e si intrecciarono. Per sempre.
“Addio, sposo mio” si dissero a un tempo. In quello stesso momento le loro labbra scomparvero sotto la corteccia. Ancora oggi, in quel medesimo luogo, i cittadini di Cibra indicano i due tronchi, l’uno accanto all’altro, nati dai due corpi. Desiderio di morire nel medesimo tempo, di trasformarsi in un attimo in altra cosa, di dirsi addio nello stesso momento e per l’ultima volta.
Un kairòs di amore e fedeltà, di fuga dalla sofferenza e di timore del distacco.

Saccheggio Il Piacere di D’Annunzio e vado a curiosare nel letto di Andrea ed Elena:
L’uno sentiva la presenza dell’altra fluire e mescersi nel suo sangue, finché questo divenne la vita di lei e il sangue di lei la vita sua… allora, con un movimento repentino Elena si sollevò sul letto, strinse tra le due palme il capo del giovine, l’attirò, gli alitò sul volto il suo desiderio, lo baciò, ricadde, gli si offerse… la passione li avvolse e li fece incuranti di tutto ciò che per ambedue non fosse godimento immediato. Ambedue, mirabilmente formati nello spirito e nel corpo all’esercizio di tutti i più alti e i più rari diletti, ricercavano, senza tregua il Sommo, l’Insuperabile, l’Inarrivabile… dalla stanchezza medesima il desiderio risorgeva più sottile, più temerario, più imprudente; come più si inebriavano, la chimera del loro cuore ingigantiva, s’agitava, generava nuovi sogni; parevano non trovar riposo che nello sforzo, come la fiamma non trova la vita che nella combustione… provavano una gioia indicibile a lacerare tutti i veli, a palesare tutti i segreti, a violare tutti i misteri, a  possedersi fin nel profondo, a penetrarsi, a mescolarsi, a comporre un essere solo… un bacio li prostrava più di un amplesso, distaccati si guardavano con gli occhi fluttuanti in una nebbia torpida. Ed ella diceva, con la voce un po’ roca, senza sorridere: Moriremo. E poi: mi sembra che tutti i pori della mia pelle sieno come un milione di piccole bocche anelanti alla tua, spasimanti per essere elette, invidiose l’una dell’altra… egli allora si metteva a coprirla di baci rapidi e fitti, trascorrendo tutto il bel corpo, non lasciando intatto alcun minimo spazio, non allentando la sua opera mai… ed ella rideva e gemeva, folle, sentendo la furia di lui imperversare; rideva e piangeva, perduta, non potendo più reggere al divorante ardore.
Il kairòs del piacere e della sofferenza, di amore e morte, di voglia di annientarsi nel piacere finché lo stesso diventa dolore.

Ho titolato questi piccoli pensieri con una rima che accompagnava la mia vita di studente ma che nella sua interessata ingenuità contiene lo spirito forte di Speranza, Promessa e Giuramento proiettandoli nel futuro, nel kronos. Ma è proprio così? Quando esprimiamo una speranza, pronunciamo una promessa, formuliamo un giuramento siamo davvero proiettati al futuro? O ci piace ascoltarci mentre lo diciamo e ne assaporiamo la nobiltà solo in quel momento? E chi ci ascolta e ci chiede l’impegno pensa davvero al futuro oppure vuole soltanto essere rassicurato in quel momento? O, forse, vale solo dirlo ed ascoltarlo in quel momento? Altrimenti queste tre nobili intenzioni potrebbero essere rinviate. Possiamo immaginare l’amante che dice all’amata “tra un anno ti prometterò eterno amore e fedeltà, oggi non me la sento”, “un giorno esprimerò la speranza di vivere sempre accanto a te”. Forse no. E allora forse aiòn e kronos non sono nulla se non per la loro proiezione nel kairos di rimpianti, nostalgie e rimorsi  e per l’illusione che il kairòs che verrà sia meglio di quel che abbiamo.

Finisco con una confessione su come vedo io il tempo. Intanto sono convinto che lo si consideri nella sua giusta luce solo dopo aver vissuto. Io ho sessantacinque anni ed ho vissuto molto. E anche con una certa intensità. Ma se guardo indietro vedo sì di avere fatto anche qualche cosa di buono, di cui essere orgoglioso ma i sentimenti prevalenti sono il rimpianto, la nostalgia e, nelle giornate buone, anche qualche rimorso. Se, invece, mi proietto nel futuro non lo vedo troppo lungo anche perché è possibile che cinquant’anni di sigarette prima o poi mi  presentino il conto. Ma, se anche fosse lungo, di qui in avanti sarebbe caratterizzato da forze che declinano, energie che si assopiscono, difficoltà sempre maggiori, fatica di vivere. Niente verso cui proiettare speranze, aspettative, investimenti. Mi resta il presente, l’odiato/amato presente, l’attimo fuggente, il piacere della cosa che sto vivendo nel momento in cui la vivo.

“chi vuol esser lieto sia…di doman non v’è certezza”.

Kairos

[1] Il dott. Mario Abrate, primario anatomopatologo dell’ospedale di Savigliano, animatore a Racconigi dell’Associazione Culturale umanistica “All’ombra del Monviso”  che, oltre a promuovere le opere del pittore Carlo Sismonda organizza una volta l’anno un pomeriggio di incontri su un tema alto, che ognuno dei relatori invitati svolge come vuole.