Una visita nell’appartamento del narratore aporetico

cop-BoveGABRIELLA MONGARDI.

Non si ringrazieranno mai abbastanza la casa editrice Fusta e il traduttore Claudio Panella per aver reso disponibili finalmente in italiano questi racconti di Emmanuel Bove, capolavori della narrativa primonovecentesca europea non meno dei racconti di Kafka o di Thomas Mann o, per rimanere in Italia, delle Novelle pirandelliane.

Scritti da Bove tra il 1925 e il 1936, i primi cinque (Una visita serale, Ciò che ho visto, Storia di un pazzo, Il ritorno del figlio, E se mentisse?) furono nel 1928 da lui stesso raccolti nell’antologia Henri Duchemin et ses ombres. L’antologia autoriale è stata arricchita, per l’edizione italiana, da Viaggio intorno a un appartamento e Ritorno a casa – dei sette racconti, l’unico che ha una protagonista femminile. Ma la donna, come compagna di vita dell’uomo, compare in tutti i racconti, ora in primo piano ora sullo sfondo: figura inquieta e inquietante, alla ricerca  – pirandelliana – di un’autenticità impossibile, di un ruolo sociale che non si riduca a quello storico di moglie e madre.

Ad un primo livello di lettura, infatti, questi racconti si iscrivono nella letteratura realistica, sembrano drammi borghesi costruiti in modo magistrale, con una narrazione ‘fotografica’ rigorosamente scandita: ambienti – per lo più case e strade cittadine – tratteggiati con poche, essenziali pennellate; personaggi messi a fuoco tramite particolari apparentemente secondari – un gesto, un dettaglio del vestito, un tratto psicologico; ampio spazio al parlato (dialoghi o pensieri), di nuovo alla maniera di Pirandello. Nel primo testo troviamo un marito disperato che racconta a un amico che la moglie di punto in bianco ha deciso di lasciarlo perché non lo ama più, e simmetricamente, nell’ultimo racconto, una donna che se n’era andata vorrebbe ritornare a casa; nel secondo e nel quinto racconto l’uomo è ossessionato dalla quasi-certezza di essere tradito, nel terzo e nel quarto è l’io-narrante ad abbandonare inspiegabilmente la donna amata (forse per paura di un tradimento?). Fa eccezione il sesto racconto, Viaggio intorno a un appartamento, che ruota intorno a uno scrittore e a sua moglie, il cui rapporto è di strana, asimmetrica ‘collaborazione’: ma nessuno dei due pensa a lasciare l’altro – essendo entrambi legati dalla e alla scrittura.

Ma che cos’è la scrittura? Chi è, veramente, uno scrittore? A un secondo livello di lettura, metaletterario, questi racconti si rivelano essere la “messa in scena” di un discorso filosofico, teorico, sulla letteratura, che gira intorno a quelle domande e cerca di rispondervi attraverso il narrare, coinvolgendo in prima persona il lettore. Il testo scivola così impercettibilmente dal realismo all’espressionismo: non sul piano stilistico, ovviamente, stante la misura classica di questa prosa scultorea, ma sul piano dei fatti e dei valori. Si potrebbe addirittura parlare di “fantastico”, parafrasando Todorov: «Il fantastico è l’esitazione di un essere razionale di fronte al manifestarsi di qualcosa di non spiegabile razionalmente». Perché è in quella direzione che Bove ci spinge, in quella dimensione ci introduce, in un mondo in cui il principio di non-contraddizione viene meno: il mondo dell’aporia, della coesistenza di verità contraddittorie, inconciliabili: il mondo della Letteratura. E in particolare il mondo della “letteratura fantastica”, intesa semplicemente come la vera letteratura,  la letteratura al quadrato, la fiction che rivendica il suo diritto a “fingere” in tutti possibili significati del verbo, in nome della libertà assoluta della mente umana, che non è solo pensiero logico e cosciente, ma anche immaginazione, inconscio, irrazionale.

Il piano di lettura metaletterario è segnalato fin dall’incipit del racconto eponimo, Una visita serale, che abbina la tristezza e i libri, nel segno di Mallarmé, e già in questo racconto, così apparentemente realistico, l’imprevedibile, l’irrazionale fa irruzione attraverso mille faglie. Subito dopo il lettore viene coinvolto esplicitamente in questo discorso, come osservatore esterno, imparziale, da cui dipende addirittura la felicità di chi scrive in Ciò che ho visto, dove è chiamato a pronunciare un verdetto di verità o falsità, mentre in Storia di un pazzo deve raccogliere la confessione di un io-narrante che si rivela, più che inattendibile, aporetico, perché segue una logica non-aristotelica, controintuitiva, straniante.

Io sospetto una sottile polemica con il realismo e l’impegno letterario, sotto questi racconti: come in quegli anni l’arte si è aperta strade non figurative, e la scienza stessa (si pensi alla fisica di Einstein, alla meccanica quantistica) ha scardinato le coordinate epistemologiche più consolidate, allo stesso modo – sembra dirci Bove, insieme a Kafka – la letteratura non può ridursi a fotocopia del reale, non può appiattirsi sull’esistente. Deve osare, giocare con l’assurdo, con l’impossibile, contornare l’abisso dove la ragione naufraga. E chiede a noi lettori, provocatoriamente, col titolo del quinto racconto: E se mentisse? Accetteremmo la sfida, ameremmo lo stesso questi racconti se non fossero quello che a prima vista sembrano, o ci sentiremmo traditi? La decisione sul vero/falso di quello che leggiamo, sulla pazzia/non pazzia di colui che scrive – questioni razionalmente indecidibili con gli elementi che vengono messi a disposizione, questioni aporetiche – è la sfida che Bove lancia al lettore; ed è una decisione che non riguarda tanto la storia narrata, come a prima vista potrebbe sembrare, quanto l’attività stessa del narrare, il suo senso e il suo fine – e quindi la giustificazione stessa dell’esistenza e del lavoro dello scrittore.

È il tema che viene esplicitamente orchestrato nel più metaletterario di questi racconti, Viaggio intorno all’appartamento di uno scrittore, che si potrebbe anche intitolare “Ritratto parodico di uno scrittore controvoglia”, ma è nel viaggio in treno raccontato in Il ritorno del figlio che viene suggerita una risposta, additato un senso, attraverso immagini che nel loro realismo si caricano di valore simbolico e allusivo, attraverso un ritmo che grazie alle anafore si fa ipnotico, onirico – e abbiamo accesso a una intensità, a una acutezza di sguardo mai provate.

Wittgenstein affermava: «Di ciò di cui non si può parlare, si deve tacere». Ma prima di arrendersi al  silenzio, la normale parola umana può diventare, nelle mani di un artista, parola ‘altra’: parola letteraria, parola-immagine, parola-musica, che dà voce al desiderio più segreto e irrealizzabile, quello di ritrovare noi stessi bambini, di ritornare con la consapevolezza dell’adulto nel tempo mitico dell’infanzia, al di qua delle antinomie, delle dicotomie, delle aporie.

Per questo la vera Letteratura non può che essere “fantastica”. Per questo serve, a chi la scrive e a chi la legge.

E. BOVE, Una visita serale e altri racconti, trad. it. di Claudio Pannela, Fusta editore, Saluzzo 2015 (www.fustaeditore.it)

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