Margutte 800

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LORENZO BARBERIS

Or queste son tre virtù cardinale,
la gola e ’l culo e ’l dado, ch’io t’ho detto;
odi la quarta, ch’è la principale,
acciò che ben si sgoccioli il barletto:
non vi bisogna uncin né porre scale
dove con mano aggiungo, ti prometto;
e mitere da papi ho già portate,
col segno in testa, e drieto le granate.

“Margutte” non è certo un fenomeno virale sui social: non è il suo scopo. Tuttavia, il nostro piccolo laboratorio online di arte, letteratura ed altro cresce lentamente, ma con costanza. Una prova di ciò è il raggiungimento degli ottocento lettori che ci seguono via FB. Una cifra minima rispetto ad altre realtà, ma per noi importante.

E, come i 700 lettori erano stati celebrati con un post sulla fortuna di Margutte nel ’700, così questo post su Margutte 800 celebra la fortuna del nostro eroe nel XIX secolo. Nel corso dell’Ottocento, più che altro, appare avvenire quindi una riscoperta critica del “Morgante” e di Margutte in particolare, all’interno della costruzione di un canone della letteratura italiana che si accompagna al Risorgimento politico.

Nello specifico, è Carlo Pellegrini a riscoprire la figura di Luigi Pulci e le sue due principali creature nell’attento saggio “Luigi Pulci, l’uomo e l’artista”, del 1889. Il volumetto, che ho di recente scoperto nella biblioteca online della fondazione Warburg, meriterà un approfondimento più dettagliato: ma voglio qui soprattutto chiarire subito uno dei punti più interessanti (anche se un po’ arrischiati).

Come abbiamo già visto, Margutte nasce nel 1483una delle prime influenze italiane che vengono riscontrate è quella sul Baldus (1517) di Teofilo Folengo, in cui appare il personaggio di Cingar (“zingaro”) da lui derivato esplicitamente.

Infatti di Cingar il Folengo descrive, nel suo celebre “latino maccheronico”, le prodezze marguttiane, incentrate soprattutto su furti in chiesa e affini. E alla fine conclude:

Baldus eum socios super omnes semper amavit,
namque suam duxit Margutti a semine razzam.

Due anni dopo, il Morgante è tradotto in Francia. In “Luigi Morgante, l’uomo e l’artista” (p.195-6) si legge che

“In Francia il Morgante dovette godere di una certa notorietà, giacché sin dal 1519 ne era stata pubblicata una traduzione, o, meglio, una parafrasi, ed a queste ne seguirono altre negli anni successivi; anche in Ispagna se ne faceva una traduzione, che uscì la prima volta a Valenza nel 1583, e che fu poi più volte ristampata.”

In Francia l’influsso di Margutte si estende sul “Gargantua e Pantagruel” (1532) di Rabelais (che era anche stato, pare, nella Torino francese). In particolare è il personaggio di Panurge che pare influenzato dal dispettosissimo Margutte, per la mediazione, secondo la critica, di Cingar medesimo, che aveva segnato un revival del pessimo gigante.

E qui si situa il volo pindarico del nostro Pellegrini:

“Già notò il Taine che Falstaff è fratello di Panurge; questi, come abbiamo osservato, deriva direttamente da Margutte; ora, sapendo come lo Shakespeare ben conosceva la nostra letteratura, viene legittimo il dubbio che piuttosto abbia attinto all’originale. Ed il confronto parrebbe confermare il dubbio: come Margutte, anche Falstaff ha tutti i vizi; ambedue aspirano, oltre che ai godimenti fisici, anche a quelli spirituali.”

Quindi il Falstaff di Shakepeare, che appare nell’Enrico IV (1597), citato nell’Enrico V (1598) e poi al fianco delle Allegre comari di Windsor (1599). Il personaggio ricorrente di Shakespeare (sembra, per ordine della Regina) deriverebbe dal nostro antieroe italico?

Uno potrebbe pensare che la riscoperta di Pellegrini sia influenzata dal “Falstaff” di Arrigo Boito per Giuseppe Verdi, l’ultima opera del Maestro. Invece no: il Falstaff verdiano è del 1893. Partecipa, comunque, di un generale clima di passione romantico-scapigliata per Shakespeare.

Difficile dire quanto vi sia davvero d’influenza marguttesca, al di là di un certo pan-italismo della critica ottocentesca. Ma, indubbiamente, il Falstaff che ride “Il mondo è burla!” ha molto del nostro mezzogigante. E, in fondo, sotto l’aspetto della pura farsa dichiara una profonda, pirandelliana verità.