Interviste impossibili: Una donna di nome Sibilla Aleramo

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SILVIA PIO

La raccolta dei suoi diari inediti “Diario di una donna”, uscita postuma nel 1978, si ricollega nel titolo con il suo primo romanzo “Una donna”, pubblicato nel 1906. Lei si considera prima donna che scrittrice?
Donna-scrittrice, donna e scrittrice, il genere è fondamentale nella mia opera, e naturalmente nella mia vita. Le vicende sono conosciute perché l’autobiografismo è un carattere importante della mia scrittura: quando avevo 16 anni ho sposato l’uomo che mi aveva circuita, ho abbandonato lui e, per forza, mio figlio. Per legge le donne sposate dovevano ottenere l’autorizzazione maritale per fare qualsiasi scelta e non avevano diritto di esercitare la tutela sui figli. Ma io penso che una buona madre deve essere una donna, non una creatura di sacrificio. Ho sempre obbedito solo al comando della mia coscienza e rispettato la mia dignità, quella che da donna sposata veniva regolarmente calpestata. Una donna ha diritto ai mezzi per svolgere la sua individualità, di cui la maternità è parte integrante. Recidendo da me quella parte, ho rinunciato a qualcosa che è pregiudiziale proprio a quello svolgimento, innescando un conflitto irrisolvibile e un destino tragico di donna.
Ha notato quante volte ho detto donna?

Sibilla è nata con l’uscita di “Una donna”, 110 anni fa. Un libro che è diventato subito un caso e che viene ristampato ancora oggi.
Ho sempre celebrato quella data come il mio compleanno, l’anniversario della mia nascita come scrittrice. Il libro divise le scrittrici e le femministe, e io ne soffrii. Ma tutto vi era compreso: la crisi della famiglia, l’urgenza di una nuova morale e di un nuovo diritto; un documento per taluni aspetti unico della sua epoca (lo diceva Emilio Cecchi).
Non dimentichiamo che vi era anche una verità che volevo raccontare a mio figlio quando fosse cresciuto. Non ho potuto rivederlo se non dopo trent’anni di lontananza.

Lei è stata considerata l’ultima dei romantici (il che può essere un complimento) per via del suo anacronismo e delle sue idee sulla funzione riformatrice dell’arte. Pensa che quella che è stata chiamata la sua inattualità sia da considerarsi una critica poco riguardosa nei suoi confronti?
Vede, io incarnavo il mito dello spirito femminile, della donna artista, facevo confusione tra arte e vita (me lo disse Cesare Pavese), una confusione considerata adolescenziale e in definitiva errata. Far coincidere l’arte con la vita è per me un ideale che tocca società e individuo, uomo e donna e la stessa teoria della letteratura.
Di frasi offensive me ne hanno rivolte molte, soprattutto riguardo alla mia vita amorosa, la critica è spesso stata spietata ma nessuno è riuscito a distruggermi. Io ero una donna del mio tempo che cercava di uscire dalle gabbie sociali. L’estetismo dannunziano mi ha influenzato, ma avevo il mio estetismo: l’urlo e il pianto, la volontà d’amore e di morte erano già di per sé un valore estetico, tanto espressivi da tenere insieme il vissuto e il romanzesco. E la critica l’aveva riconosciuto, insieme alla verità psicologica e la vastità d’orizzonte (lo diceva Massimo Bontempelli). Mostravo l’anima femminile moderna e rispecchiavo nella mia opera i dibattiti del tempo sull’emancipazione della donna.

I suoi temi sono stati considerati femministi.
Dal movimento femminista mi sono distaccata, considerandolo una breve avventura, eroica all’inizio, ma da adolescenti, inevitabile ed ormai superata. Mi interessava la libera estrinsecazione dell’energia femminile, il mondo femmineo dell’intuizione, soprattutto in letteratura e poesia.
Poi volevo far parte di uno sforzo collettivo, vivere, sì per me stessa, ma anche per tutti. Per questo motivo ho promosso iniziative umanitarie e nel 1945 mi sono iscritta al PCI (facendo indignare certi ambienti borghesi), un’adesione dettata dalla coscienza che rappresentava il coronamento della mia vita di scrittrice e di donna.
Comunque scrivevo di ciò che meglio conoscevo: me stessa, la mia vita, i miei amori. Tutta la mia vita è stata un seguito di storie dedalee. Ho vissuto alla giornata, collaborando con giornali e riviste, ho pagato di persona i miei comportamenti e i miei momenti di libertà. (Alfredo Panzini mi ha chiamata Donna chisciottiana). La società non mi perdonava ch’io andassi sola e indifesa e ha condannato esplicitamente il mio modo d’essere.

Anche l’amore ricorre nei titoli dei suoi libri.
Non solo nei titoli. L’amore fu la ragione della mia esistenza e del mondo. Gli amori sono stati molti, incostanti, impossibili, spesso finiti quasi subito facendo evaporare l’illusione del definitivo. Quanto costa ogni amore! Qualcosa mi spingeva a interpretare la parte di musa dei poeti, infatti tanti tra loro ho amato. Pellegrina d’amore (mi chiamava, non senza disprezzo, Benedetto Croce). Ma si vive soli, e le donne lo sanno. Ed io sono stata sola come una puttana intellettuale (lo ha detto Emilio Cecchi).
Cercando di salvarsi, l’amore si proiettava nella sfera intellettiva o in quella dell’azione meditativa, diventava incentivo di miglioramento etico e sociale. Col passare del tempo ho trasferito l’amore per l’uomo sul piano dell’Idea. Una sublimazione che è risultata in solitudine amorosa, la solitudine con tutti i suoi fragranti capelli. Ma sono invecchiata tardi, grazie all’amor dell’amore.
Ha notato quante volte ho detto amore?

Amo dunque sono1
Sibilla Aleramo, nata Rina Faccio, Alessandria 14.08.1876 – Roma 13.01.1960

Bibliografia:
Una donna, Feltrinelli 2003
Diario di una donna, Feltrinelli 1978
Amo dunque sono, Oscar Mondadori 1982
Un viaggio chiamato amore, Feltrinelli 2002
Selva d’amore, Newton Compton Editore 1980
Il passaggio, Feltrinelli 2000
Articolo Il coraggio di “Una donna”: Sibilla Aleramo di Claudia Piccinelli

Le immagini sono tratte dalle copertine dei libri in bibliografia

(Articolo pubblicato originariamente il 14 marzo 2016)

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