La testa sì, quella canta sempre

copertina

CLAUDIA PICCINELLI
Marinella Ollino, da Mongardino (Asti), 1956. Lalli e basta. Dai Franti a Elia: voce solista, compositrice, poetessa e altre cose ancora. Un pezzetto di storia, una storia a pezzetti. Tutta dentro la musica.

Le loro voci
(dall’album dei Franti Non classificato)

Poco sole, pochi i giochi, i bambini guardano su
Una scia graffi a il cielo, occhi scuri cercando un se
Inventa madre, tu che sei dolce
storie impaurite di felicità
presto il sonno ci prenderà, suoni lievi la tua voce
Quattro di mattina piove piano, me li vedo i
marciapiedi
trasparenti il buio e i neon, è solo un altro giorno
Ti svegli e sei dentro un sogno,
mi dici “dormi”, guardi l’ora
una piega cancella il tuo viso,
suoni lievi la tua voce
Una mano conta i minuti, respira storie di
gioia bruciata
Una mano tatuata sul palmo, è fredda è
notte è Beirut.
Sembra una notte come tante, ruba ancora
aria là fuori
Occhi feroci uccidono il giorno, forse domani
solo una foto.
Mani, le mie, mani su Beirut,
taglio di luce spezza il sorriso
Mani, le mie, mani, il cuscino, la fine del
sonno è dentro.
Sembra una notte come tante,
quasi sento gridare qua sotto
Si, lo so, è molto lontano
anche la strada è sempre uguale

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Brigata partigiana Alphaville
(dall’album Tempo di vento)

Scesi dall’auto a toccare il mondo
come venuti dalle stelle
ci guardavamo attorno, senza fretta.
I colletti alzati delle giacche,
erano rondini senza vento,
nella testa solo un richiamo,
rumore sordo di mare, un uragano.
Mi sorprendono gli occhi di tua madre,
mi trapassano, se ne vanno,
proprio mentre il ponte
saltava in mille scintille…
Oggi sono vecchio e stanco,
è aprile e vento, ho più paura,
così sono venuto a chiederti,
fammi questo piacere,
ti prego, questo piacere
Canta la mia canzone preferita
ti prego, canta,
cantala in questa mattina
appena appena impazzita,
cantala dove la mia mano ti potrà vedere,
cantala dove anche il mare
si può riposare
Vedi, non potevo davvero,
non potevo di certo
guardare le altre luci brillare
senza provare a toccarle,
canta la mia canzone preferita,
ti prego, canta,
cantala in questa mattina
appena appena impazzita

***

Ballo lento
(dall’album All’improvviso, nella mia stanza)

Una nuvola di fumo
che ci scopre lentamente
corpi stretti nell’abbraccio
in un ballo senza tempo
La camicia stropicciata
sulle braccia abbandonate
il tremore della terra
E mi stringo nella testa
per non fare uscire il grido tutto è solo e abbandonato
Sarà così, si farà da sé
parlerà per me
Sarà così
Dimmi il nome e la ragione
perché un cuore sconosciuto
lascia più vergogna e più ferite
Vorrei bastasse dirti – Guarda
porgendoti uno specchio
e il tremore delle mani
È solo un ballo lento
nell’urgenza della voce,
fra i battiti del tempo,
fra i respiri del silenzio,
nelle pieghe delle case
sulle pagine del mondo
la canzone
si scriverà
da sé
parlerà per me
Sarà così, si farà da sé
parlerà per me
Sarà così

stanza

Mostar
(dall’album Tempo di vento)

Senti la neve, com’è calda qui
Nessun rumore e anche il cecchino si
dev’essere stupito
Senti la neve? Senti la neve?
Lavoravo qui con mio padre
e un pezzo di quel ponte, sai, era anche mio,
e di un poeta che non voleva morire per i
confini dei potenti
Senti la neve? senti la neve?
Solo l’odio e le cicatrici, diceva,
ci sarebbero venuti dietro per sempre con le
nostre ombre
come le nostre ombre, come le nostre orme sopra la neve
Com’è fredda qui tra le mie dita
Senti la neve? Senti la neve?
Un colpo dietro l’altro ha coperto tutto
ha coperto tutto ma non proprio tutto
adesso i miei occhi vedono tutto bianco, senza
confini,
vedono tutto quello che non c’è più,
ci distinguo ancora la luna,
ma sono così stanco, adesso mi riposo un po’
qui sulla neve
Senti la neve? Senti la neve?

***

Aria di Buenos Aires
(dall’album Tempo di vento)
Qui non vengono più a posarsi gli arcobaleni
e le nuvole alte, così larghe
da tenersi stretto il vento sottobraccio e il sole
tra i denti,
il giovedì pomeriggio in questa Piazza di
Maggio,
tutte qui, mezze a Torino e mezze a Buenos
Aires.
Come per magia eccole uscire dai corsi
immensi,
scivolate fin qui come nebbia in novembre,
indossano foto sbiadite e nessuno sembra
vederle,
eppure gridano nomi, posti e date,
ognuno una nuvola, uno sparo su Buenos
Aires.
E d’improvviso è già qui un vento caldo che
sa un po’ di terra
ma è quasi un tango
e batte piano così come una lingua che sa un
po’ di sale
ed è proprio un tango.
Dietro la porta si sente il mare,
le donne in nero le pietre portate fi n qui,
addosso il dolore di un silenzio,
ma qui sotto i seni il caldo del cuore, del
tempo di un’onda
in questa stanza al confine con Buenos Aires.

uno

Incontro Lalli una mattina colorata di un bell’autunno torinese. Mi accoglie nella sua stanza chiara, silenziosa. Il micio Tato ancora insonnolito ci fa compagnia sulla poltrona. È un trovatello, nato malato e raccolto dal cassonetto delle immondizie, a San Vincenzo. Attento, fissa con i suoi occhi ciechi e ascolta il racconto di Lalli, mentre lei con mano leggera, di tanto in tanto, gli asciuga con un fazzoletto il mucolino, strofinandogli i baffi .

Lalli, mi piacerebbe in questa nostra conversazione iniziare a cogliere il tuo profondo sguardo sul mondo, il tuo mondo interiore. Tu sei torinese di adozione, ancora piccola con la famiglia, dalla provincia di Asti ti sei trasferita in città. Se sei d’accordo, ti va di iniziare proprio con un balzo all’indietro, ripercorrendo la tua infanzia, le persone a te vicine che hanno segnato la tua strada?
Certo, volentieri farò un bel balzo all’indietro… Avrò avuto quattro anni. Dalle colline di Mongardino ci siamo trasferiti a Torino dove mio padre lavorava. All’asilo la maestra mi obbligava a stare con gli altri bambini, io invece preferivo rimanere da sola. Mi sedevo sulle scale, non volevo entrare in classe. Non mi sono mai inserita. Mia mamma era preoccupata per me. Ho impressa la sua immagine molto sofferente quando mio padre ha deciso di andarsene. Io avevo undici anni. Ha perso i capelli. “Prova a fumare, ti rilassa”, le ha detto il dottore di famiglia. Si è accesa una sigaretta e dopo qualche minuto l’ho vista addormentarsi. Così ha preso il vizio del fumo. La sua presenza mi bastava, compensava anche quella di mio padre. Ormai non lo vedevo più. Ma lo amavo. Si chiamava Venanzio. Mamma Alma aveva una predilezione per i bambini, voleva fare la maestra. Era del ’29. Invece ha cresciuto i fratellini, in una famiglia contadina. Era la fi glia preferita di mia nonna Marina. Io mi chiamo Marinella, come dire, una Marina piccola, curioso!
Le saltavo sulle ginocchia. Sento ancora i suoi abbracci, e quel suo amore smisurato per gli animali. Come quando mio nonno tornato da caccia con una volpe ferita dalla tagliola, nonna Marina si è presa cura della povera bestiola con dedizione, costanza, senza risparmiare carezze, coccole, tenerezza. Belle le estati a Mongardino dalla nonna! Ci rimanevo fino a settembre. Non mi piaceva tornare a Torino, la Torino Sabauda, perché non potevo parlare il dialetto. Il piemontese è diverso dal dialetto di Torino, più savoiardo, in punta di lingua. Il nostro è più largo, contadino, da mani grandi, scarpe da lavoro. Allora mio padre: “Se stai buona, se parli bene l’italiano a scuola, ti porto a fare il sonnellino e ti lascio parlare tutto in dialetto”. E io mi sentivo liberata. Un tempo nevicava molto di più in inverno. Nonna Marina ci preparava il dolce con la neve. Prendeva la parte sotto, bella pulita, e ci metteva lo zucchero. Zucchero e neve, il dolce più buono! Anche lei una presenza discreta, come tutti del resto, nella mia famiglia. “Non devi essere la migliore” mi ripeteva. E mia madre, tra la guerra e i fratelli da crescere non ha potuto studiare, allora: “I libri dovranno diventare i tuoi migliori amici”. Tutti i libri di Salgari usciti in edicola me li ha comprati, e io ne ho ricomprati altri sulle bancarelle. Sono cresciuta con Salgari e Madama Butterfl y. La cantava mia mamma: “Un bel dì vedremo…”. Ho la sua stessa estensione vocale. Le chiedevo di suggerirmi le parole, non me le ricordavo mai. Lei ascoltava la mia voce.

due

Ad un certo punto ti sei aperta alla vita politica. Come ricordi questa esperienza?
Mi sono avvicinata alla politica alle superiori. Scuole sovraffollate, i turni al pomeriggio per le lezioni. Assemblee, occupazioni. Marea di persone in mezzo alle strade. Semplicemente un’apertura al mondo. Compagne di scuola e ragazzi di altre scuole, manifestazioni. Politica militante voleva dire andare ai collettivi, ai coordinamenti.
A scuola diventai un mito. Le avanguardie erano già uscite. Ora toccava a me andare dalla bidella, prendere il megafono, far uscire tutti gli studenti dalle aule e convogliarli in palestra. Ad un certo punto, per la confusione esce il preside e mi si avvicina. All’improvviso, silenzio, disagio. “E lei di che classe è?”, “Operaia” risposi senza lasciarmi intimorire. Tutti si misero a ridere, e il preside da quella volta ha cominciato a dimostrarsi meno intransigente, insomma più comprensivo. Poi la militanza è finita negli anni di piombo, nella repressione. Sono stati cancellati i luoghi, gli spazi fisici, la sede di Lotta Continua, di Corso San Maurizio. Non potevi far gruppo, nemmeno sederti sulle panchine: arrivava la sicurezza, chiamavano la polizia. Tutti i cinema chiusi. Un’altra perdita per noi che ci andavamo quasi ogni giorno. Costava davvero poco, un piatto di pasta e il cinema…

Musica e scrittura, un bell’incontro. Quali circostanze ti hanno avvicinata?
Nel gruppo c’era sempre qualcuno che suonava la chitarra. Ho conosciuto Stefano Giaccone. Volevamo aprire una radio libera. Il nome c’era già: “Radio Morgana”, suona bene, tanti i riferimenti: la fata Morgana, la Morgana di Corto Maltese. Ma non avevamo i fondi, dovevamo andare in collina per affittare un ripetitore. Non ci siamo riusciti. Per raccogliere i fondi abbiamo organizzato un concerto, il mio primo concerto. Poi abbiamo iniziato insieme l’esperienza dei “Franti”. Il primo concerto in città, all’aperto. Non ricordo bene dove, ma è stata la prima rivelazione anche per me. Ho capito che era un mondo che mi si poteva aprire. Il Cortiletto di Torino, un punto di riferimento. Era la sala prove del quartiere, non c’era bisogno di farsi le proprie cantine. Lì conoscevi tutto il mondo musicale, con la circoscrizione sempre aperta. Vicino c’era il bar dove andavano gli operai di Mirafiori. Mi piaceva molto interpretare “Voglio di più” di Pino Daniele, “America” di Gianna Nannini. E Stefano: “Prova a scrivere”. Così ho composto “Le loro voci”, per i Franti. La mia prima canzone, in una notte. Sulla strage dei campi profughi palestinesi di Sabra e Shatila a Beirut. Era successo all’alba. La notte ho scritto il massacro visto dalla parte di un bambino: “poco sole, pochi giochi, i bambini guardano su ….”. Quella notte non ho dormito, per il dolore. Mi sono resa conto che potevo scrivere canzoni e che “Le loro voci” ha rappresentato un testo fondamentale. Poi “Voghera”. Era normale far parte di collettivi femministi, spesso si avevano parenti o detenute incarcerate a Voghera. Cercavo di capire cosa significava per i parenti. E per i detenuti vivere in una situazione di assoluta a-sensorialità, quando ti lasciano la luce accesa 24 ore su 24, quando non sai se è giorno o notte, oppure stai nel silenzio senza sentire un rumore per giorni, giorni e giorni: “pietre che cadono sull’acciaio invisibile…”. Mio padre era molto affezionato a “Bella ciao”. Una notte, in sogno mi diceva molto affettuoso, sorridente: “Canta la mia canzone”. Al mattino mi sono alzata e ho scritto “Brigata partigiana Alphaville”, e l’ho dedicata a mio padre.

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Ti va di parlare dei luoghi, degli spazi che hanno connotato la tua esperienza di donna, cantante, autrice ?
Vivrei in casa, sempre. Non perché non mi piaccia il mondo. Ma la mia dimensione è questa. È di nuovo stare un po’ indietro. Come quelli della mia famiglia, anch’io sono così. Se devo fare, faccio. Ad esempio ho fatto l’avanguardia a scuola, in politica, la front-man nei gruppi musicali – sì, front-man, non front-woman, non c’è un modo di dirlo al femminile, bisogna dirlo al maschile-. Comunque, se devo scegliere, preferisco stare un po’ più in disparte. “Testa storta”, per la colonna sonora del film “Preferisco il rumore del mare” del regista Mimmo Calopresti, è la prima canzone che abbiamo scritto Pietro ed io. In casa, senza fatica. Un’altra rivelazione, una persona con la quale potevo scrivere tranquilla. Era proprio come essere a casa. Un non far fatica. Di fondo, c’è casa. “Èlia”, il titolo del cd del 2006, è il nome della nonna di Pietro. Ed è di nuovo casa. Mongardino, di nuovo, è un ritorno a casa. Ma oggi io non mi sento più a casa, né a Torino né a Mongardino. Però essere nata in un posto, quando ci torni è sempre casa. I colori di Mongardino, il verde, rosso, i gialli. Diversi rossi, diversi gialli. E poi si vendemmia, in autunno, a Mongardino.
Se penso invece alla città allora è Torino, e solo Torino. Con la sua urbanizzazione e i luoghi scomparsi. La faccia della città cambia, Mongardino no. Oggi riconosco pochissimi posti. Piazza Solferino, ma perché ci ho lavorato quasi trent’anni, dove c’erano le piste per le olimpiadi. Ci sono molto affezionata . E poi certi viali e controviali alberati da percorrere sui marciapiedi, camminando.

Lalli con Pietro Salizzoni due

Lalli con Pietro Salizzoni

Quale significato e quale posto ha la musica nel tuo sentire personale?
La musica, l’ho capito da subito, un posto l’avrebbe avuto nella mia vita. A tutto tondo, non limitato a un solo periodo.
A seconda delle fasi della vita, ha un posto più o meno grande, più o meno coinvolgente. Dopo “Tempo di vento” del ’98, il mio primo disco solista, avrei mollato, se non fosse stato per Pietro. Lui, la sua umiltà. È un chitarrista Pietro Salizzoni, non solo un autore. Un musicista che sa fare il proprio mestiere a livelli eccellenti, creare arrangiamenti particolari e capace di farli risuonare. Mi piace in particolare la musica composta da Pietro per “Ballo lento”. Ogni tanto me la canto dentro. Diceva: “Lalli, i miei interessi sono altri, faccio il Politecnico, vorrei fare l’ingegnere ambientale. Se serve imparare a suonare il basso, il contrabbasso, il banjo per suonare con te, lo faccio”. Una persona rara, mi potevo fidare. C’era intesa profonda, sintonia. E poi, la musica ti trascina su un palco, davanti a un pubblico. “È schizofrenico”, diceva Demetrio Stratos. Sei su un palco. Canti, senti la tua voce da dentro, ma tu non sentirai mai quello che sentono loro. In più canti da sola, fai finta di rivolgerti a qualcun altro che ti sta di fronte. Ma il pubblico è una entità astratta, un’altra forma di schizofrenia. Charlie Parker suonava di schiena, fino alla fine della sua carriera ha suonato di spalle, ed era Charlie Parker. La musica fa parte di me, anche quando non tengo concerti pubblici o non scrivo con Pietro canzoni. Io suono sempre. Io canto sempre. Ho la testa che canta, pensa a una canzone, alle parole, alla melodia, a come cantarla. Mi sveglio cantando. Nulla sfugge alle regole della musica, alla sua legge, neanche le persone, i rapporti umani, l’amore, gli affetti. In qualche modo stanno lì dentro. Quando hanno saputo della mia grave malattia, dalla Toscana, mia zia Mirella e mio cugino Marco – non li vedevo da vent’anni – mi hanno accolta in casa loro, a San Vincenzo. Salvata un’altra volta perché da sola non potevo accudirmi. Come dire, è un sentire comune, un’armonia, un essere nello stesso tempo. Marco da un anno è ritornato a Torino. La vita ti riporta ai tuoi luoghi. Quando c’è molta sofferenza, smetto di ascoltare musica. Come sento una nota mi si stringe la gola. Ma devo essere forte. Allora smetto di ascoltare, anche per mesi, e mi sembra di stare meglio.

E la tua filosofia di vita?
Sono una contadina. Stefano – siamo stati compagni per più di sette anni – ogni tanto mi rimproverava: “Sei troppo semplicistica, troppo contadina”. Invece io rivendico questo mio essere contadina. Perché le cose della vita sono semplici, magari sono difficili da raggiungere, da spiegare, da rendere. Come la semplicità della musica è difficile da realizzare. Dietro la semplicità c’è un lavoro enorme. Enorme. Enorme. Come ad un concerto, tutto bello, sì. Pensa a quello che si è svegliato alle quattro del mattino per costruire il palco, a quello che si presenta dopo qualche ora per allestire le luci, a quell’altro che lavora da mesi per creare certi effetti. Lavoro, sì tanto lavoro. Per trovare un accordo di una canzone, magari ci si mette anche sette, otto mesi: “No la melodia lì non va bene, è ridondante… No no Pietro, guarda ci ho ripensato… ”.
I miei sono tempi da contadina. Ho bisogno di un bel paio di maniche lunghe per masticare il dolore, poterci stare dentro, sopravvivere. Maturare un abbandono, una mancanza. Devi sentirla come vera, reale, buona. Conviverci. E poi accettare che “non è”. E basta. Imparare la rassegnazione. Ci vuole tempo. Per me che sono una contadina, una ribelle di natura non è facile. Forse non la imparerò mai. Invece essere più in pace con me stessa, quello sì, credo di averlo imparato. Anche questa è una forma di rassegnazione. Oggi puoi fare l’equilibrista, il cantante, il pittore dadaista, non importa. È la legge dell’immagine ad essere dominante, nient’altro. E a questo non ci si rassegna facilmente. Perché poi la vita batte e quell’immagine lì va a farsi fottere. Quando hai bisogno di una mano, a cosa serve che l’altro sappia usare la sua mano, solo per un selfie!

Lalli con Miguel Angel Acosta

Lalli con Miguel Angel Acosta

A chi si rivolgono le tue parole in musica?
Da ragazze e ragazzi ho ricevuto tantissime lettere. Mi parlano come se fossi entrata in casa loro, sapessi cosa stanno passando, vivendo. Si mettono l’iPod e sei nelle loro orecchie, nella loro testa. E non sai dove sei capitata. Non sai con la musica dove puoi arrivare. Lettere intense esprimono il bene che sembra tu abbia fatto loro. Invece hai solo scritto una canzone. Certo, gratifica molto. Ma si incappa anche in situazioni particolari. Innamoramenti, crisi di gelosia. Vorrebbero mettersi con te perché ti conoscono già prima di incontrarti, attraverso le canzoni. Oggi, con la mia malattia, non ho il fiato per cantare. Allora scrivo. Scrivo poesie. Ma lo dico anche in “Fuochi I”: “nella testa la musica non si ferma mai”. Io ho sempre la testa che pensa, suona, scrive, canta. La testa canta. La testa sì, quella canta sempre.

L’intervista a Lalli di Claudia Piccinelli è uscita originariamente su A rivista anarchica n. 396 – marzo 2015 (http://www.arivista.org/)