La serenità di un mite inverno

Auster

STEFANO CASARINO.

Quando inizia la “terza età”?

Per gli antichi Romani dopo i sessant’anni: all’inizio del Cato Maior de senectute, il sessantaduenne Cicerone scrive al carissimo amico coetaneo Attico: voglio alleviare sia a me che a te questo fardello che abbiamo in comune, quello della vecchiaia che ci incalza o comunque sta arrivando.

Paul Auster nel suo Winter Journal, invece, non scrive a nessun amico particolare, dialoga con se stesso: è il 2012, sta per compiere sessantaquattro anni:

È innegabile che tu non sia più giovane. Tra un mese esatto compirai sessantaquattro anni, e anche se non sei così avanti con gli anni da poterti definire vecchio, non puoi fare a meno di pensare a tutti quelli che alla tua età non ci sono arrivati. È un esempio delle varie cose che non avrebbero mai potuto succedere, ma invece sono successe.

Stupore ed ossessione per l’età che si ha: ci si è arrivati, cosa c’è dopo?

È l’appressamento dell’ “inverno” della propria esistenza ed è il momento di qualche bilancio, del ripensamento, lucido e trasognato, di cosa si è stati e di cosa si è diventati, alla ricerca di un “io” certamente esistente ma indefinibile (ti piacerebbe sapere chi sei; e ancora: tutti siamo estranei a noi stessi, e se abbiamo nozione di chi siamo è solo perché viviamo negli occhi degli altri).

I ricordi procedono in modo random, si giustappongono: ma forse anche la memoria, come il sogno, ha un suo ordine, certamente non consequenziale, ma che procede piuttosto attraverso la costante intermittenza di richiami e suggestioni.

Memoria, anzitutto, del corpo: delle cicatrici di traumi infantili; di denti persi e non sostituiti; una condizione di salute non ottimale, a causa di una alimentazione scorretta (la tua dieta non segue i dettami della dottrina nutrizionale contemporanea, ma se rifiuti quasi tutte le verdure è solo perché non ti piacciono, e mangiare quello che non ti piace è una cosa che trovi difficile, se non impossibile) e per il troppo fumo e il troppo bere.

Non si prescinde, non si può né si deve prescindere dalla propria fisicità: è lei che rivela la nostra fragile precarietà.

Ricordi di incidenti che avrebbero potuto essere mortali; di infarti; di attacchi di panico; di momenti di insonnia; di tutte le volte che si è appalesata la morte: il dolore per i lutti, la morte dei genitori, così diversi… e la chiara consapevolezza di essere tenacemente attaccati dalla vita:

No, tu non vuoi morire, e pur avvicinandoti all’età che tuo padre aveva quando finì la sua vita non hai telefonato a nessun cimitero per prenotare un luogo di sepoltura, non hai dato via nessuno dei libri che sei sicuro di non leggere mai più, e non hai cominciato a schiarirti la voce per gli addii.

Per questo, credo, il libro è così bello: è un’intensa, appassionata dichiarazione di amore alla vita, a tutte le sue stagioni.

Anche a quella della terza età?

È arrivato il tuo compleanno ed è passato. Sessantaquattro anni, a mano a mano sempre più vicino alla terza età, ai giorni del servizio sanitario gratuito e della pensione, a un’età in cui un numero sempre maggiore dei tuoi amici ti avrà lasciato. In tanti se ne sono già andati – ma sai che il diluvio arriverà ora.

Sullo sfondo della memoria privata – infanzia e adolescenza, la repentina sconvolgente metamorfosi dal tredicenne alto un metro e cinquantotto al quindicenne di più di un metro e ottanta; dal piacere di fare la lotta con gli amichetti, come hanno fatto e sempre faranno i maschietti, alla scoperta del sesso… – sfumano i dionisiaci anni Settanta, con le morti per overdose di alcuni amici d’infanzia.

Mutano i luoghi, ben ventuno diversi indirizzi, tanti posti visitati, quasi tutti i continenti, tranne Africa e Antartide: non male per uno che candidamente afferma di esser sprovvisto di senso dell’orientamento (hai sofferto per tutta la vita dell’incapacità di orientarti nello spazio) e di invidiare gli altri:

La maggioranza delle altre persone, compresa tua moglie con la sua infallibile bussola interna, sembrano in grado di ritrovarsi senza difficoltà. Sanno dove sono, dove sono stati e dove andranno, ma tu non sai niente, sei perso per sempre nel momento, nel vuoto di ciascun successivo momento che ti avvolge, del tutto ignaro di dove sia il nord perché per te i quattro punti cardinali non esistono, non sono mai esistiti. 

Ci si perde anche nel tempo: come ci si può orientare nella storia della propria famiglia? Quanto indietro si riesce a risalire? Al massimo ai nonni: per quanti di noi non è lo stesso?

Puoi risalire solo fino ai tuoi nonni, con qualche scarsa informazione sui bisnonni materni, vale a dire che le generazioni venute prima di loro sono ridotte a uno spazio bianco, un vuoto di ipotesi e congetture cieche.

Tutti e quattro i nonni di Auster erano ebrei dell’Europa orientale.

E la questione della razza contribuisce significativamente a definire meglio l’identità dell’autore: ripugnanza istintiva per ogni forma di razzismo e di intolleranza; sensibile disponibilità  per tutto ciò che esiste; capacità di porre sempre tutto in discussione. E bisogno e volontà di amare.

Tra le pagine più belle vi sono quelle dedicate alla moglie, al suo secondo e definitivo legame coniugale:

Avevate le stesse idee politiche, la maggioranza dei libri preferiti erano gli stessi per tutti e due, e condividevate le stesse opinioni su ciò che chiedevate alla vita: amore, lavoro e figli – con i soldi e la roba molto più giù in classifica. Per tuo grande sollievo i vostri caratteri non avevano nulla in comune. Lei rideva più di te, era più libera ed estroversa, più calda: eppure, scendendo giù giù, fino al profondo dove foste uniti, sentivi di avere conosciuto un’altra versione di te stesso, ma molto più evoluta, più capace di esprimere quello che tu tenevi tappato dentro, una creatura più sana.

La moglie riesce a trasformare persino i verbali delle riunioni di condominio – uno degli argomenti più “pallosi” che possano esistere! – che tocca a lei scrivere in qualcosa di deliziosamente ironico; è poetessa e scrittrice; è, soprattutto, la sua compagna da più di trent’anni.

Sposando lei, ha anche sposato la sua famiglia:

quella era una famiglia solida, che non somigliava per nulla alla famiglia spaccata e provvisoria in cui eri cresciuto, e non ci volle molto prima che diventassi uno di loro, perché quella famiglia, per un imperituro colpo di fortuna, adesso era anche la tua.

Auster ricorda i suoceri norvegesi e le cene di Natale, con un menù semplicissimo e invariato dal lontano 1981 (costine di maiale con un velo di sale e pepe, arrostite nel forno e servite senza intingoli o condimenti. Contorno di patate lesse, cavolfiori, verze rosse, cavolini di Bruxelles, carote, mirtilli rossi; e per dessert il budino di riso. Nessun pranzo avrebbe potuto essere più semplice, più sfacciatamente in contrasto con le idee dell’America contemporanea sulla composizione di un accettabile menù festivo) e si sofferma sull’autodefinizione della propria figlia quindicenne: norvebraica.

Non credi esistano molte persone che possano vantare questo specifico marchio identitario, ma questa è l’America , in fin de conti, e sì, tu e tua moglie siete i genitori di una norvebrea.

Non norvegese, ma svedese è il proverbio a cui mi viene da pensare a conclusione della lettura del libro: Il pomeriggio conosce cose che il mattino neppure sospettava.

Così mi pare per questo libro, che si conclude con l’autore che dichiara di essersi sentito chiamare dai morti, di vedere spesso in sogno il proprio padre. Che avverte, insomma, tutta la paura della fine della vita, terminando l’opera come l’ha iniziata, con l’ossessione per la propria fisicità e per la propria età:

Hai sessantaquattro anni. Fuori l’aria è grigia, quasi bianca, il sole non si vede. Ti domandi: quante mattine restano?

Ma in questo dialogo con se stesso – e con noi lettori – ha certamente scoperto di non essere vissuto invano, arrivando quasi a scoprire – per dirla con Borges – larecondita chiave dei suoi anni.

Arrigo d’Orrico ha sostenuto che questo è «uno dei libri più belli di Paul Auster, scritto con le mani in alto come di chi si arrende. In questo caso al mistero della vita e della morte. Soprattutto al mistero di se stessi.».

Personalmente, non ho avvertito affatto un senso di resa, piuttosto la riaffermazione di una tenace fede nell’essere umano, nella sua dignità e nel doloroso amore per la vita.

Pur con una comprensibile dose d’angoscia, è un bilancio sereno, di un uomo che ora appare pacificato con se stesso e con la propria storia.

Una lettura ideale per un inverno così stranamente mite come questo del 2015.

PAUL AUSTER, Diario di inverno, trad. di M. Bocchiola, Einaudi, Torino 2015