Non chiederci la parola… Gozzano, Sbarbaro, Montale

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GABRIELLA MONGARDI.

Con grande tempestività, a soli sei mesi dal convegno ”Non chiederci la parola… Gozzano, Sbarbaro, Montale”, tenutosi a Cengio (SV) nel maggio 2015, è uscita con Matisklo in ebook la raccolta di saggi sulla maggiore triade poetica ligure-piemontese del Novecento. Curato da Giannino Balbis, il libro raccoglie gli stimolanti interventi di Arnaldo Di Benedetto (Università di Torino), Mariarosa Masoero (Università di Torino), Fabio Barricalla (Università di Genova), Marino Boaglio (Liceo “G.F. Porporato” di Pinerolo), Valter Boggione (Università di Torino), Giangiacomo Amoretti (Università di Genova) e Stefano Casarino (Liceo “Vasco-Beccaria-Govone” di Mondovì), che arricchiscono profondamente la conoscenza e la comprensione di tre poeti fondamentali della nostra letteratura del Novecento. Com’è ovvio, trattandosi degli atti di un convegno, il libro presenta i saggi nell’ordine in cui i relatori si sono susseguiti, ma in questa sede li raggrupperò per autore.

Che emozione, il ricordo di Montale che Arnaldo Di Benedetto condivide con noi “su fil di lama” tra privato e pubblico, in Ricordare Montale…! L’eminente studioso ha infatti conosciuto il poeta e la moglie detta dagli amici “Mosca”, “molto aperta, cordiale e chiacchierina”, quand’era studente liceale, ha poi frequentato la sua casa di via Bigli ed è rimasto in contatto epistolare con lui. Rimpiange di non aver preso appunti su quelle conversazioni, in cui parlavano di scrittori, di critici, di conoscenze comuni: ma da quello che ricorda emerge un interessantissimo spaccato della letteratura e della critica letteraria novecentesca nel giudizio di Montale, e anche il sorprendente rapporto del poeta con i grandi della letteratura italiana: a parte il suo amore per Dante, lesse tardi Petrarca, conobbe pochissimo Ariosto e di Tasso ammirava episodi secondari; non amava Leopardi, mentre era entusiasta del romanzo La bocca del lupo di Remigio Zena, oggi noto solo agli addetti ai lavori.

La Mosca è la protagonista del saggio di Marino Boaglio, Montale: la presenza-assenza di Mosca, sensibile, profonda e raffinata lettura di Xenia, “la suite con cui il poeta ritornava ai versi dopo molti anni” nel ricordo della moglie morta. Boaglio ne individua il filo conduttore nella “svolta dal dialogo impossibile sul limitare tra vita e morte alla ripresa e riconsiderazione delle forme di una memoria condivisa”; parla di “misura classica”, di “sublime d’en bas”, di “discorso unitario, compatto, sviluppato in due serie di quattordici testi ciascuno, in cui ricordi, pensieri e minimi gesti concorrono a formare una costellazione di eventi ampia quanto coerente”; riconosce più la continuità che la rottura rispetto alle prime tre raccolte, perché “ il segno dell’assenza caratterizza tutta la grande poesia montaliana” e la Mosca è “l’ultima possibile incarnazione della donna soterica e consolatrice”. Di Xenia l’interpretazione sottolinea non “gli aspetti quotidiani, diaristici e realistici, che certamente possono essere stati l’occasione ai versi, bensì invece la loro elevazione sul piano figurale e paradigmatico”, che è il piano su cui sempre si muove la poesia e in particolare quella di Montale, “sul limitare tra vita e morte, in un ‘oltretempo’ non storico e non metafisico, sotto il segno dell’enigma” e del mistero.

Più tecnici e filologici i due interventi su Sbarbaro, soprattutto il primo, di Fabio Barricalla: La “questione sbarbariana”: per un’edizione critica di “tutto Sbarbaro”. A leggere il testo, estremamente lucido ed elegante, si viene colti da una violenta vertigine filologica, nonché dalla tentazione di usare, magari a sproposito, il rasoio di Occam: editiones non sunt multiplicandae sine necessitate… Ma il relatore indica persuasivamente i punti fermi e i criteri di edizione, e auspica un’edizione critica ‘globale’ che renda “piena giustizia all’opera non di uno dei minori, ma dei maggiori autori del Novecento”, ‘colpevole’ però – agli occhi di un filologo – di un incessante, perfezionistico “rimescolio di carte”…

Nel secondo intervento, Sbarbaro: “Pianissimo” uno e due, Giangiacomo Amoretti ci fa toccare con mano che effetti produca quel “rimescolio di carte”. Dopo aver brevemente ricapitolato la vicenda editoriale di Pianissimo, evidenzia i cambiamenti apportati dall’autore all’edizione del ’14 nell’edizione del ’60: cambiamenti talmente numerosi da fare di quest’ultima un testo nuovo, o meglio una rilettura dall’interno, una reinterpretazione del primo Pianissimo, per metterne in luce il nucleo poetico che l’autore sente ancora vivo. Nel secondo Pianissimo l’espressione lirica diventa più intensa e densa, più asciutta e meno consolatoria, più avulsa dalla realtà autobiografica, ma Sbarbaro è sempre molto attento a mantenere l’equilibrio tra i due registri stilistici opposti del prezioso-letterario da un lato e del colloquiale-prosaico dall’altro. Dopo un’analisi comparata molto minuziosa Amoretti conclude: «Non sta a me giudicare se l’operazione abbia avuto successo e se insomma il parere di tanti studiosi circa la superiorità di Pianissimo ’14 rispetto alla nuova versione sia da ribaltare. Mi pare sufficiente aver posto la questione, nella convinzione – spero di averla abbastanza argomentata – che anche Pianissimo ’60 meriti di essere letto e convenientemente apprezzato, non fosse altro che come suggerimento interpretativo per meglio comprendere il valore poetico e umano, e insieme gli inevitabili limiti, dell’altro, più vecchio Pianissimo».

Infine, Gozzano. In vista di un centenario: «Gozzano fuori dell’Italia» di Mariarosa Masoero è il frutto di un’interessantissima ricerca fra i libri a suo tempo donati all’Università di Torino da Renato Gozzano, il fratello di Guido, oggi custoditi dal Centro Interuniversitario per gli studi di Letteratura italiana in Piemonte «Guido Gozzano-Cesare Pavese». Ne sono emerse alcune antologie straniere, per lo più risalenti agli anni ’60, tranne una del 1928, che propongono una selezione, non sempre scontata (dai Colloqui, ma anche dalla Via del rifugio e dalle Farfalle), di liriche gozzaniane tradotte negli Stati Uniti e in alcuni paesi europei: Francia, Gran Bretagna, Germania, Svezia, Ungheria. “Tra i curatori ci si imbatte in nomi di tutto rispetto, quali Lionello Fiumi e Salvatore Quasimodo”, nota l’autrice. Il contributo è arricchito dalle fotografie delle copertine di queste antologie.

Valter Boggione, nel suo Gozzano: l’arte della bugia, prende le distanze dalla concezione etica della bugia, in chiave antidannunziana, che è alla base della biografia gozzaniana di De Rienzo (1983) Vita breve di un rispettabile bugiardo, e che era la stessa di Saba, per cui la falsità inficiava i risultati letterari di Gozzano. La sua tesi è che “in Gozzano, la menzogna è categoria interna alla letteratura, dunque categoria estetica” ma partendo da lì, dalla concezione gozzaniana della letteratura come “vivere fittizio”, come filtro che allontana la realtà e la rende tollerabile, lo studioso arriva a riconoscere alla “letteratura come menzogna” il ruolo di strumento di difesa (dall’inadeguatezza a combattere la lotta per la vita) e di strumento conoscitivo, perché solo la finzione, nel doppio significato di ‘invenzione’ e ‘menzogna’, permette di sollevare il velo di Maia schopenhaueriano e di capire veramente il mondo, guardandolo da lontano.

In chiusura Stefano Casarino, Frugando tra il ciarpame reietto di Gozzano, percorre tutta la sua produzione (non amplissima, data la brevità della sua vita) per capire che cosa Gozzano può ancora dire a un lettore d’oggi, a uno studente d’oggi. E disegna il ritratto di un uomo rivolto al passato, all’infanzia, e allo stesso tempo vecchio interiormente; uno che guarda la vita da lontano, rimpiange la mancanza di Dio ed è consapevole della morte imminente, che esorcizza con l’autoironia e il sogno. Soprattutto, Casarino sottolinea il carattere incompiuto e di presagio dell’esperienza poetica di Gozzano, una poesia “che è come un’alba giunta troppo presto al tramonto. Ma un’alba che lascia intravedere bagliori e luminosità di altri poeti che a Gozzano comunque devono molto”.

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