La ribelle di Nazareth

Incontri impossibili

visione d'insieme

Interno della cappella di San Fiorenzo in Bastia Mondovì

ATTILIO IANNIELLO
Non ricordo il motivo per cui il 24 dicembre di alcuni anni fa, decisi di andare a visitare il Sacrario partigiano che dal colle San Bernardo sovrasta il paese di Bastia Mondovì, e che ospita la memoria di oltre ottocento caduti della guerra di Liberazione dal nazifascismo.
Ricordo tuttavia cosa accadde quel pomeriggio e cosa rimase in me nei giorni, nei mesi e negli anni che seguirono.
Permettetemi di raccontare, anche se solo sommariamente, gli avvenimenti che mi occorsero e perdonatemi se quanto dirò sembrerà ai più follia, o parto di una mente esaltata. Confido nella testimonianza di quanti mi conoscono: non sono né folle né esaltato, se non nella giusta misura di quanti desiderano per sé e per tutti gli esseri viventi, amore, libertà e giustizia sociale.
Ma torniamo al racconto dei fatti. Sorpassai il paese di Bastia nelle prime ore del pomeriggio e, dopo circa un chilometro, svoltai con l’auto a sinistra per risalire la strada provinciale 126 fino al Sacrario partigiano. Mi trovai quindi di fronte alla cappella di San Fiorenzo, la cui porta d’ingresso laterale mi sembrò che fosse solo accostata. La cosa mi incuriosì, posteggiai l’auto nel vasto parcheggio ed entrai.
Quante volte avevo visitato la cappella insieme a Silvia e Lucia; quanti amici vi accompagnammo e a quanti altri ne suggerimmo la visita.
Mi venivano in mente le parole di un volontario dell’arte che ci diceva: «La semplice struttura della cappella racchiude all’interno un ciclo di affreschi così straordinario ed imponente da lasciare stupefatto il visitatore. Sono ben 326 mq. di affreschi realizzati a più mani dalle migliori scuole popolari del XV secolo: pareti policrome, arte semplice, spoglia di orpelli ma ricca di misticismo e di profonda religiosità; una “Bibbia dei poveri” che, attraverso le storie dei Santi, della Vita e della Passione di Cristo, del Paradiso e dell’Inferno, si fa catechesi per istruire, ammaestrare e confortare non solo la gente semplice della comunità rurale di allora, ma anche l’incantato visitatore di oggi. Gli affreschi portano la data del 24 giugno 1472».
Nella cappella non vi era nessuno e incominciai a scorrere con lo sguardo gli affreschi. Ad un certo punto mi colpì la vista di una rappresentazione della Natività sulla parete della controfacciata.

natività

Cappella di San Fiorenzo: Natività

Mi avvicinai e la semplicità dell’affresco suscitò in me ricordi infantili: presepi preparati da mio padre sulla credenza in cucina, personaggi di terracotta o figure prese dai giornali, incollate su compensato e ritagliate delicatamente con il traforo.
Stavo guardando con simpatia san Giuseppe che cucinava una zuppa, quando mi sentii toccare la coscia sinistra con un bastone. Per un momento mi sembrò che la gamba sinistra non riuscisse più a reggermi, poi mi girai e rimasi stupito di fronte a due donne che sembravano uscite da un documentario sulla vita in villaggi mediorientali.
«Ci scusi, non volevamo distrarla dalla sua contemplazione dell’affresco della Natività» disse la donna più anziana. «Siamo rimaste colpite, però, dai suoi ricordi. Abbiamo anche visto la sua ribellione all’idea della morte, quella di suo padre, e di diverse persone care, persino, forse, di qualche suo sogno, di qualche sua speranza. È per questo che siamo qui, non per rispondere a domande che possono avere soddisfazione solamente su un piano escatologico, ma per dare senso a ciò che sta contemplando, a quella Natività che molti si accingono a festeggiare. Intanto lasci che mi presenti. Mi chiamo Elisabetta, che nell’antica lingua aramaica significa “Colei che giura per Dio”; in tarda età ho partorito Giovanni che voi ricordate come Giovanni il Battista. Lei» disse rivolgendosi alla donna al suo fianco, «è mia cugina Maria».

Elisabetta e la Madre di Dio (Pelendri - Cipro

Maria ed Elisabetta, affresco di una cappella di Pelendri – Cipro

Elisabetta iniziò a raccontare di quando Maria le fece visita nel villaggio di Ain Karem dove viveva insieme al marito Zaccaria.
Il ricordo di quella visita doveva essere inciso con forza nel suo cuore, si commosse persino: «Non riesco a trovare le parole», sussurrò Elisabetta. «Fu tutto così veloce e allo stesso tempo eterno, infinito, come se il tempo si fosse dilatato anche spazialmente. Sentivo, avevo la certezza che Maria avesse in grembo il Messia e quasi le urlai “Benedetta, benedetta sei fra le donne e benedetto è colui che sta crescendo nel tuo grembo”».

«Elisabetta quel giorno mi abbracciò con una forza e un calore che non avevo mai provato», intervenne Maria. «Sentii crescere in me una forza gioiosa, sentii la mia mente aprirsi ad una visione che trasformai in canto:

L’anima mia magnifica il Signore
e il mio spirito esulta il Dio salvatore,
perché ha guardato l’umiltà della sua serva.
D’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata.
Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente
e Santo è il suo nome:
di generazione in generazione la sua misericordia
si stende su quelli che lo temono.
Ha spiegato la potenza del suo braccio
ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore;
ha rovesciato i potenti dai troni
ha innalzato gli umili;
ha ricolmato di beni gli affamati
ha rimandato i ricchi a mai vuote.
Ha soccorso Israele suo servo
ricordandosi della sua misericordia
come aveva promesso ai nostri Padri
ad Abramo e alla sua discendente per sempre. [Luca 1, 46-55]

Non mi chieda come avevo potuto cantare tutte queste cose, questi concetti così alti e terribili per una giovane donna qual ero. Credo che in quel momento cantasse in me tutta l’umanità sia quella passata che quella presente e futura. Ero consapevole tuttavia che stavo dando la vita al Dio Liberatore».

 

«Come spiegare quello che successe!» disse Elisabetta. «Rimasi estasiata al canto di Maria; il mio sguardo interiore vagava in terre dove giustizia e pace regnavano; compresi nella mia carne, nelle mie mani, nella mia quotidianità che qualcosa era cambiato per sempre, che il seme di cieli e terre nuove era ormai germinato e nulla e nessuno avrebbe potuto sradicarlo».

Elisabetta volle spiegare meglio quanto mi aveva detto. Disse di non essere così ingenua da pensare che veramente da quel giorno i potenti fossero stati rovesciati, ne sapeva qualcosa lei stessa che vide il proprio figlio Giovanni decapitato per il divertimento di un potente. Per quanti secoli i potenti hanno decapitato chi da loro dissentiva e per quanto tempo ancora lo faranno. Eppure quel canto di Maria che in seguito avrebbero chiamato Magnificat non raccontava il falso, era la vera promessa di Dio che si apriva nella storia con la nascita di Gesù di Nazareth.
Mentre Elisabetta parlava, mi venivano in mente quei pomeriggi nella biblioteca del Seminario arcivescovile in via XX settembre a Torino, dove un giovane anarchico ed un frate francescano legati da amicizia si confrontavano attraverso i testi della teologia della liberazione; tra le pagine bibliche più citate vi erano il libro dell’Esodo e proprio il brano del Magnificat nel Vangelo di Luca. Nei ricordi scorrevano quei mesi tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta ed alcuni nomi si rincorrevano nella memoria e tra questi Gustavo Gutiérrez [1], Leonardo Boff [2], Jurgen Moltmann [3].

 

«Non pensi che fu facile essere “Vergine Madre, figlia del tuo Figlio” come mi descrisse il vostro poeta Dante», disse Maria. «Fu una vita ribelle, non compresa da chi si nascondeva nella Tradizione; essere incinta senza un uomo, le lascio pensare. In questo, Giuseppe mi fu vicino, forse mi salvò da un destino crudele. Con il passare del tempo poi la mia vita fu anche notte oscura, camminamento su cenge esposte al nulla, dolore straziante a forma di croce. Fu però anche luce di un sepolcro vuoto, visione di risurrezione, fuoco di comunità. Il giorno che concepii Gesù compresi gli sconfinamenti dell’amore di Dio, compresi che le parole di tanti profeti non erano solamente espressioni poetiche, sogni consolatori con cui acquietare gli anawim [i vinti], compresi che erano mappe di nuove terre, pagine di nuova storia… e mi creda, mi sentii piccola, infinitamente piccola di fronte a tutto ciò; eppure quando cantai quello che voi chiamate Magnificat mi percepii infinitamente grande, con tutto l’universo nel mio grembo».

 

Rimasi in silenzio; cosa dire? cosa rispondere? cosa domandare? Mi sovvenni di una intervista a David Maria Turoldo trasmessa anni fa alla televisione. Sollecitato a parlare del Natale, il padre servita disse: «Dio che ha guardato all’umiltà della sua serva; che ha fatto grandi cose in lei, l’Onnipotente; e poi ha spiegato la potenza del suo braccio; e ha disperso perfino i pensieri dei superbi; ha rovesciato i potenti dai troni; ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati; ha rimandato a mani vuote i ricchi; ha soccorso Israele suo servo; si è ricordato della sua misericordia! Dieci verbi, dieci imprese: il poema della madre che già lo porta in seno. Per dire che colui che concepisce Cristo non può non mettersi a cantare; e celebrare davanti al mondo cosa significhi la sua venuta. Che se non significa questo, vuol dire che non è venuto, che ancora non ha preso carne. Ed è inutile perfino che gli angeli si mettano a cantare… ».
In silenzio presi commiato da Maria ed Elisabetta, uscii da San Fiorenzo, con l’auto andai al Sacrario partigiano. Ero turbato, eppure guardai con occhi nuovi il luogo, le lapidi, gli elenchi di nomi, intuii i semi di speranza di quegli uomini di cui rimaneva un nome nel marmo. Il sole basso all’orizzonte di dicembre dava un tocco apocalittico alle Langhe e, ricordo, per un attimo vorticarono in me le parole: risurrezione, resistenza, rinascimento, Natale. Fu un attimo, poi tornando all’auto mi sembrò che tutto avesse senso.

Note
[1] Gutiérrez G., Teologia della liberazione. Prospettive, Brescia, 1972, pag. 207: «Il Magnificat potrebbe esprimere alla perfezione questa spiritualità della liberazione. Testo di azione di grazie per i doni del Signore, esprime umilmente la gioia di sapersi amati da lui (…). Ma, al tempo stesso, è uno dei testi di maggior contenuto liberatore e politico del Nuovo Testamento. Questa azione di grazie e questa gioia sono strettamente legate all’azione di Dio che libera gli oppressi e umilia i potenti… Il futuro della storia è nella linea del povero e dello sfruttato. La liberazione autentica sarà opera dello stesso oppresso, in lui il Signore salva la storia. La spiritualità della liberazione avrà come punto di partenza la spiritualità degli anawim [i vinti]».
[2] Boff L., Il volto materno di Dio, saggio interdisciplinare sul femminile e le sue forme religiose, Brescia, 1981, pag. 186: «Dio ama tutti e li avvolge con il suo gesto misericordioso, perché sono tutti suoi figli. Tuttavia vi sono figli che sono docili o ribelli, buoni o cattivi. In un mondo così contraddittorio e disumanizzato, dove vi sono innegabilmente oppressi ed oppressori, la forma dell’amore di Dio è differente. Gesù non tratta alla stessa maniera i poveri, gli ammalati, i farisei, i pubblicani, ed Erode. I poveri li chiama beati, i farisei sepolcri imbiancati, Erode lo chiama volpe, ai pubblicani fa vedere, come a Zaccheo, l’iniquità della loro ricchezza, accumulata con la frode. Dunque, la liberazione che vuole per tutti incontra strade differenti a causa delle diverse forme di oppressione. Così Dio esalta gli umili e fa giustizia ai poveri perché insorge contro gli oppressori che per le loro operazioni avide e egoistiche provocano impoverimento ed umiliazione. Disperde i superbi di cuore perché, convertiti e liberi dalla loro ridicola autoaffermazione, possano essere figli liberi ed obbedienti a Dio e fratelli degli altri uomini»
[3] Moltmann J., Il linguaggio della liberazione. Prediche e meditazioni, Brescia, 1973, pp. 126-128: «[Il Magnificat] è sovversivo. È l’inno di una grande rivoluzione della speranza, poiché questo Dio nel quale Maria esulta così filialmente, rende supremo ciò che è infimo (…). Questo inno risuona come la marsigliese del fronte cristiano di liberazione nelle lotte tra le potenze e gli oppressi di questo mondo. […] Egli [Dio] esalta nella sua grazia gli umiliati e gli offesi, gli oppressi e gli schiacciati, i disumanizzati (…) d’altra parte egli protesta contro i non-uomini, che distruggono la vita degli altri con la violenza, la ricchezza, l’egoismo. Egli disperse i boriosi, affinché da non-uomini diventino uomini. Egli rovescia dal trono i potenti affinché riscoprano la loro umanità. Rimanda a mani vuote i ricchi affinché imparino a guadagnare per sé e per il loro prossimo»

(Articolo pubblicato originariamente il 25 dicembre 2015)