Intervista ad Antonella Selva

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LORENZO BARBERIS

Ho di recente recensito un interessante fumetto di Antonella Selva, “Femminismi“, una riflessione sull’incontro non sempre facile tra culture che ho trovato interessante. Ho voluto quindi porre qualche domanda all’autrice, che è stata così gentile da accettare questa piccola intervista.

Come nasce la scelta di usare il fumetto per raccontare tre storie dei tre differenti “femminismi” che si incrociano nella tua opera?

Il fumetto è una mia passione giovanile: ho sempre disegnato, fin da bambina e sempre per raccontare storie. A vent’anni presi in considerazione di farlo per professione (avevo vent’anni nel 1980 e Bologna era un po’ la capitale del fumetto d’autore, quindi forse non era un’idea molto originale tra i miei coetanei in quel momento) poi però quest’idea finì chiusa in un cassetto e per molti anni non ho disegnato più. Oggi, guardando indietro, mi pare che più che l’ovvia difficoltà di aprirsi una strada nel mondo dell’arte, a scoraggiarmi fosse stata soprattutto la mancanza di una vera motivazione “narrativa”. Cioè, a vent’anni, semplicemente, non avevo qualcosa di veramente urgente da dire. Ci è voluta l’esperienza di vita, maturata anche attraverso la militanza politica e la conoscenza profonda della comunità migrante proveniente dal Marocco – mio marito è marocchino e abbiamo due figli con la doppia cittadinanza – per trovare questa motivazione. Tra e con i migranti mi sono imbattuta in storie forti, importanti, che chiedono con urgenza di essere raccontate e soprattutto di essere raccontate dal punto di vista di chi le ha vissute, insomma far udire la loro voce.

Questa storia urgente che voleva uscire è la storia di Hayat, la “colf” marocchina: è la storia vera, con pochissimi adattamenti narrativi, di una nostra cara amica. Però a raccontarla da sola si rischiava un effetto un po’ troppo “dickensiano”, ottocentesco, per questo ho provato a intrecciarla con gli altri due personaggi, che sono invece di fantasia anche se con basi reali. Così il focus si è spostato sulla relazione asimmetrica e complicata tra queste tre figure femminile e mi ha permesso di parlare di un altro aspetto interessante della società di oggi, che è quello dell’incontro-scontro tra diverse visioni della donna. E mi piaceva che questo avvenisse attraverso il fumetto, quindi fuori dal contesto accademico, perché il black feminism e il femminismo musulmano oggi abitano le nostre città e le nostre scuole molto più dei libri!

Poi sono molto grata a Lorenzo Cimmino, il mio editore e curatore, per il coraggio con cui ha sostenuto fin dall’inizio un progetto per molti versi vagamente “romantico”.

Se hai già dei riscontri, quale ti è sembrata l’accoglienza di questo fumetto da parte del pubblico dei lettori (osservazioni, considerazioni, critiche…)?

Devo dire che, a pochi giorni dal lancio, sono molto contenta dell’accoglienza, che è anzi migliore di quella che mi aspettavo, proponendomi come “esordiente dai capelli bianchi”. Com’era prevedibile il pubblico e l’interesse femminile è prevalente ma non esclusivo e le ragazze più giovani mi sembrano le più coinvolte. Una nota curiosa: mi pare di aver colto una punta di disagio tra le “femministe storiche” che hanno preso in mano il libro (beh, sì, Bologna è una città piccola in fondo e ci conosciamo un po’ tutte/i), una reazione del tipo “oh-oh, qui si parla di noi, ma per dirne bene o male?”. Perché io in effetti sono un’outsider nella galassia femminista: per motivi anagrafici sono stata attraversata e anche plasmata dai movimenti delle donne, ma la mia militanza politica nella nuova sinistra cresciuta negli anni ’70 non era all’interno delle organizzazioni femministe. Quindi si trovano nella posizione di essere raccontate da qualcun altro, che è in verità quello che succede ed è sempre successo alle donne di altre provenienze, ma questo qualcun altro non è il soggetto-universale-maschile contro il quale hanno armi molto affilate, ma piuttosto uno sguardo femminile altro e questo, mi pare, le spiazza un po’. Non si sono ancora pronunciate esplicitamente, staremo a vedere…

C’è qualche aneddoto o elemento interessante del “dietro le quinte”, della lavorazione di questa storia, che puoi raccontarci?

Ti rivelo un segreto: nel campo del disegno sono un’autodidatta, la mia formazione è più letteraria che artistica, anche se mio padre aveva una apprezzatissima bottega artigiana di cornici e abbiamo sempre vissuto in mezzo alle arti applicate, la manualità l’ho appresa con lui. Ci sono quindi aspetti tecnici che affronto con fatica e purtroppo si vede: ad esempio le architetture mi mandano nel panico! Invece i volti e i personaggi sono il mio elemento naturale, ricordo che nei miei quaderni di scuola c’erano più faccine disegnate di attori, compagni e insegnanti che non versioni di greco. Perciò creare i personaggi è stata la parte del lavoro che mi è piaciuta di più: sono tutti ritratti di persone vere, a cominciare da Hayat che impersona se stessa. La prof è ispirata all’attrice Shirley McLaine (colta tra i 60 e i 70 anni), per questo l’ho chiamata Irma. Ma c’è anche Anna Magnani: cercatela!

E poi ci sono i nomi arabi: dato che di solito hanno un significato, quelli femminili spesso sono aggettivi qualificativi o sostantivi astratti, mi sono divertita a scegliere per ciascuno un nome appropriato: Hayat vuol dire “vita” e Afkar “pensieri”, Kaoutar, nome dell’amica  accogliente a Casablanca, significa “abbondanza” e Basma, nome della giovane guida nei primi passi bolognesi, ottimista e sdrammatizzante, vuol dire “sorriso”.

Quali sono le tue impressioni sulla rappresentazione dei “femminismi” all’interno del fumetto popolare italiano? 

Mah, di certo ne sai più tu nella tua posizione di critico, io non ho una visione sufficientemente approfondita. Tuttavia, ma lo dico sottovoce,  ho l’impressione che non ci sia traccia o quasi di questo tema nel fumetto popolare italiano. Certo, come giustamente notavi tu, comincia a fare capolino qualche personaggio femminile fuori dagli schemi come la detective Rania in Dylan Dog, e direi più per merito degli sceneggiatori – quelli bravi devono essere attenti alle mutazioni sociali! – che non dei dei disegnatori. A livello iconografico invece, e vorrei sbagliarmi, credo che il cliché della donna giocata sempre e solo sul registro del sex appeal sia ancora talmente preponderante  che neppure ci se ne rende conto: il messaggio è “le donne si disegnano così, punto”. Credo addirittura che il lettore popolare del fumetto popolare farebbe fatica a riconoscere un personaggio femminile disegnato con altri criteri. Da questo punto di vista il mio fumetto rompe senz’altro uno stereotipo, ma non mi aspetto di essere popolare!

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Non ci resta che ringraziare davvero di cuore la gentilissima Antonella per la disponibilità con cui si è prestata a questa interessante intervista, e augurarci di poterci risentire a presto, con un nuovo capitolo del suo lavoro a fumetti!