Grida contro la guerra

Da Flickr. Attribuzione - Non commerciale - Condividi allo stesso modo (CC BY-NC-SA 2.0)

Da Flickr. Attribuzione – Non commerciale – Condividi allo stesso modo (CC BY-NC-SA 2.0)

ATTILIO IANNIELLO
Ci sono giorni in cui segni a volte molto diversi tra loro ci trascinano in pensieri e ricordi e riflessioni che ci sospendono sul crinale tra consapevolezza esistenziale e malinconia. Soprattutto quando il vecchio ciliegio del giardino trascolora le sue foglie in quel giallo/rosso che annuncia le prime brinate.

Ecco che i lavori di sistemazione di una strada del centro storico con i quali si sostituisce l’asfalto con il porfido richiamano quello slogan «Sous le pavé, la plage» che avevamo archiviato in quella parte del cervello (o del cuore) dove faldoni in cui non si posa mai polvere contengono giovanili, studenteschi, liceali ricordi.

Se a questo si aggiunge la lettura di un libro in cui ad un certo punto viene citata la mobilitazione degli anni Sessanta del XX secolo contro la guerra del Vietnam, ecco che inizia un film ricco di volti, manifestazioni, canzoni ed anche qualche amore ormai lontano nel tempo.
È quindi con un grande lavoro di lima (ed anche scalpello) che ci si limiterà ad un cenno di storia poco conosciuta. Per la verità tutto in questo scritto vuole portare ad un evento accaduto cinquanta anni fa, precisamente il 9 novembre 1965.

Gli anni Sessanta videro una escalation della guerra nel Vietnam. Questa nazione nel 1954 nel corso della Conferenza internazionale di Ginevra veniva suddivisa in Vietnam del Nord (Repubblica democratica di ispirazione comunista guidata da Ho Chi Minh con capitale Hanoi) e Vietnam del Sud, una repubblica governata da Ngo Dinh Diem con capitale Saigon e sottoposta al protettorato statunitense in funzione anticomunista.
Ngo Dinh Diem non riusciva però a contrastare in modo efficace il crescente malcontento popolare contro il suo governo, inoltre, soprattutto nelle campagne, si affermava il Fronte Nazionale di Liberazione, i cui guerriglieri (Vietcong) iniziavano ad inanellare una serie di successi militari anche grazie all’appoggio del Vietnam del Nord.

Il presidente Usa, John Kennedy, per frenare l’avanzata comunista intensificava la presenza di consiglieri militari nella zona, appoggiando anche la presa del potere a Saigon del generale Nguyên Van Thieu.
John Kennedy verrà assassinato il 22 novembre 1963.
Il nuovo presidente degli Usa, Lyndon Johnson, proseguì nella politica della presenza in Indocina, anzi, uno scontro tra torpediniere nordvietnamite e una cacciatorpediniera americana avvenuto il 2 agosto 1964 nel golfo del Tonchino verrà utilizzato da Johnson per ottenere dal Senato americano l’autorizzazione ad intervenire in Vietnam con consistenti contingenti militari.
Iniziava così quella disastrosa e drammatica avventura bellica che causò la morte di oltre 7 milioni di persone, soprattutto civili.
Tra il 1964 e il 1972 furono 58.226 i soldati statunitensi che persero la vita in Vietnam, oltre 150mila i feriti di cui molti con menomazioni fisiche gravi.
Fu nel 1965 che la guerra iniziava ad apparire, anche presso l’opinione pubblica mondiale più distratta, in tutta la sua drammaticità. Ci furono tentativi diplomatici per risolvere il conflitto; l’Italia e la Francia in particolare proposero trattative tra le parti, anche il papa Paolo VI scrisse, in occasione di una tregua, a tutti i capi di nazioni interessate al conflitto per perorare la causa della pace (Messaggio di papa Paolo VI).

La guerra continuò.
In quegli anni, in quella prima metà degli anni Sessanta tuttavia per la prima volta nella storia una categoria generazionale, i giovani, diventava protagonista di un movimento politico e culturale che avrebbe avuto in seguito importanti conseguenze sociali.
Nel 1965 in Italia i giovani incominciavano ad ascoltare canzoni che riecheggiavano il desiderio di una società giusta e pacifica, priva della paura collettiva della guerra nucleare, e priva di quelle diseguaglianze sociali che la forzata industrializzazione del secondo dopoguerra iniziava a manifestare.

Ecco riemergere dai ricordi, per esempio, Proposta cantata dai Giganti:

«Mettete dei fiori nei vostri cannoni
perché non vogliamo mai nel cielo
molecole malate
ma note musicali
che formino gli accordi
per una ballata di pace…»

e Auschwitz di Francesco Guccini:

«Io chiedo quando sarà
che l’uomo potrà imparare
a vivere senza ammazzare
e il vento si poserà
e il vento si poserà»

ed ancora Dio è morto cantata dai Nomadi

«M’han detto
che questa mia generazione ormai non crede
in ciò che spesso han mascherato con la fede
nei miti eterni della patria e dell’eroe
perché è venuto ormai il momento di negare
tutto ciò che è falsità
le fedi fatte di abitudini e paura
una politica che è solo far carriera
il perbenismo interessato
la dignità fatta di vuoto
l’ipocrisia di chi sta sempre
con la ragione e mai col torto.
È un dio che è morto
nei campi di sterminio, dio è morto
coi miti della razza, dio è morto
con gli odi di partito, dio è morto.
Ma penso
che questa mia generazione è preparata
a un mondo nuovo e a una speranza appena nata
ad un futuro che ha già in mano,
ad una rivolta senza armi
perché noi tutti ormai sappiamo
che se Dio muore è per tre giorni
e poi risorge.
In ciò che noi crediamo Dio è risorto
in ciò che noi vogliamo Dio è risorto
nel mondo che faremo Dio è risorto».

«La speranza appena nata» muoveva negli Usa migliaia di giovani, e meno giovani, a contestare la guerra e i suoi orrori, quali per esempio l’uso del napalm che rimaneva attaccato alla pelle bruciandola.
Il gesuita Daniel Berrigan definì il Vietnam «la terra dei bambini che bruciano».

Manifestazioni imponenti si susseguivano in tutte le principali città.
Molti bruciavano la cartolina che li chiamava alle armi (draft) facendosi arrestare, altri disertavano rifugiandosi in altri Paesi.

Nel 1965 i sit-in, i cortei dei giovani statunitensi erano accompagnati anche da canzoni antimilitariste con riferimenti più o meno espliciti alla Vietnam War.

Business Goes on as Usual (Le cose vanno avanti come al solito), parole di Fred Hellerman, musica di Fran Minkoff, cantata da Chad Mitchell Trio, Roberta Flack and John Denver

«Le cose vanno avanti come al solito
il mais e i profitti sono alti
e la TV in ogni stanza
non può certo mancare
e dice quale deodorante comprare

Le cose vanno avanti come al solito
soltanto che mio fratello è morto
aveva venticinque anni
una vita ancora tutta da gustare
ma i sogni, come la sua testa, sono stati fatti saltare

in una terra lontano
con un fucile in mano
in una guerra
difficile da capire
Oh, le cose vanno avanti come al solito».

I Ain’t Marching Anymore (Non marcerò mai più) di Phil Ochs

«Sono sempre i vecchi che ci conducono alla guerra,
sempre i giovani a cadere.
Guardate cosa abbiamo vinto con la sciabola o il fucile.
Valeva la pena morire?».

Jimmy’s Road (La strada di Jimmy) di Willie Nelson

«Questa è la strada di Jimmy, dove andava a giocare
e questo è il prato di Jimmy
dove Jimmy si sdraiava a guardare il cielo
Questo è l’albero di Jimmy che Jimmy scalava.
Jimmy è andato alla guerra
e qualcosa è cambiato nella sua testa.
Ora Jimmy sa cosa fare
e lo fa molto bene.
Questa è la tomba di Jimmy, il suo corpo è sotto terra
e quando un soldato cade
Jimmy muore e muore».

Lyndon Johnson Told The Nation (Lyndon Johnson ha detto alla Nazione) di Tom Paxton

«Lyndon Johnson ha detto alla nazione:
non abbiate paura che ci scappi di mano,
cerco di accontentare ogni fazione.
Anche se non è proprio una guerra,
cinquantamila ne abbiamo spediti
per salvare il Vietnam dai vietnamiti».

The War Drags On (La guerra si trascina) di Donovan

«Sono andati là per cercare di liberare la gente
ma come lo fanno mi sembra non funzioni per niente.
Aumentano il sangue, le lacrime e il dolore
questo povero paese da vent’anni è un orrore.
E la guerra si trascina».

In quegli anni oltre alle manifestazioni comparve una drammatica forma di protesta.
Diversi monaci buddisti vietnamiti si diedero fuoco invocando la pace.
Anche negli Usa questa forma di estrema protesta comparve.
Il 26 marzo 1965 Alice Herz, un’attivista pacifista ed esperantista ottantaduenne si diede fuoco a Detroit nel Michigan; il 2 novembre dello stesso anno fu il quacchero trentaduenne Norman Morrison ad incendiare se stesso di fronte al Pentagono; 7 giorni dopo, il 9 novembre 1965 Roger LaPorte alle cinque del mattino si sedette di fronte alla sede della delegazione Usa presso l’ONU e dopo essersi cosparso di benzina si diede fuoco.

«“Faccio parte del Catholic Worker”, gridò, prima di entrare in coma nell’ospedale dove era stato trasportato d’urgenza. “Il mio è un gesto religioso. Sono contrario alla guerra, qualsiasi guerra”. Prima della morte sopravvenuta dopo ventidue ore di agonia, riprese conoscenza e al frate carmelitano che lo confessava disse: “Voglio vivere”.» (Forrest Jim, L’anarchica di Dio. Dorothy Day, Mappano (TO), 1989, pag. 195).

Roger LaPorte era uno studente molto impegnato, era entrato in seminario ed aveva partecipato fin dall’inizio alle manifestazioni contro la guerra in Vietnam.
Alcune settimane prima della sua auto immolazione, proprio in una di queste manifestazioni, alcune persone favorevoli alla guerra gridarono ai giovani che bruciavano le cartoline precetto: «Appiccate a voi stessi il fuoco, non alle cartoline precetto». Roger rispose loro con il suo gesto, con il suo corpo crepitante.
Roger LaPorte da due anni prestava servizio volontario presso le case d’accoglienza del movimento Catholic Worker e proprio la fondatrice di tale organizzazione, Dotothy Day, rispose a quanti nel mondo cristiano cattolico rimasero scandalizzati dal gesto di LaPorte: il suicidio è un peccato grave, come può averlo fatto un cristiano credente e praticante?

«Un prete carmelitano è stato chiamato al pronto soccorso del Bellevue Hospital il mese scorso dove Roger LaPorte stava morendo a causa delle bruciature che si era inflitto e che coprivano il novantanove per cento del suo corpo», scrisse Dorothy Day. «Secondo la testimonianza di questo prete, in seguito alla confessione di Roger, questi aveva compiuto un atto di contrizione con voce forte e chiara. A meno che non vogliamo dubitare l’integrità di un uomo in punto di morte, dobbiamo credere che egli era consapevole, con la chiarezza di chi sta morendo, che stava sbagliando a togliersi la vita, cercando di immolare se stesso per la causa della pace. Disse che voleva che “la guerra in Vietnam finisse”.
Voleva dare la vita per i suoi fratelli, dare la sua anziché prendere la loro, seguire l’esempio dei monaci buddisti e di due altri americani che avevano fatto lo stesso [una donna a Detroit e un Quacchero a Washington. NdT].
(…)
Ricordo come Kirilov, ne I demoni di Dostoievsky, si tolde la vita come suprema negazione dell’esistenza di Dio, per dimostrare al mondo la sua convinzione che l’uomo non è creato, che la vita è sua e può disfarsene come preferisce. Kirilov è l’esempio letterario più alto di volontà e di auto deificazione.
Ricordo anche di aver letto nelle memorie della moglie di Lenin il racconto della morte auto inflitta della figlia di Karl Marx e di suo marito, e la lode di questo atto da parte di chi scriveva. Avevano terminato il loro lavoro, volevano affermane l’autonomia dell’uomo. Erano morti come erano vissuti, scriveva, coerenti con i loro principi.
Cito questi due casi di suicidio da parte di coloro che si dedicarono a servire i loro fratelli e erano vissuti per ciò che loro consideravano la verità in loro stessi e nel mondo. (…)
Ma il caso di Roger La Porte è diverso e se ne deve parlare e scrivere in un contesto molto più profondo. Non è soltanto che molti giovani e studenti in tutto il paese sono profondamente sensibili alle sofferenze del mondo. Sentono appassionatamente la loro responsabilità e fanno una professione della loro fede dicendo che le cose non devono per forza andare avanti come sono sempre andate, che gli uomini sono capaci di offrire la vita per gli altri, prendendo posizione anche se lo Stato che tutto invade, e il mondo intero, è contro di loro.
In Pane e vino di Ignazio Silone, il rivoluzionario che si nasconde rischia di essere catturato andando in giro a scrivere slogan sui muri del paese dove è rifugiato, e quando viene deriso per l’apparente futilità del gesto, risponde: “Il paese della propaganda è costruito sull’unanimità. Se un uomo dice ‘no’, l’incantesimo è rotto e l’ordine pubblico viene messo a rischio”.
In tutto il nostro paese le proteste contro la guerra in Vietnam sono cresciute e giovani uomini sono stati imprigionati, alcuni per anni. (Uno è stato condannato di recente alla pena di cinque anni per aver rifiutato la leva militare). Sulla stampa trapelano notizie di aeroplani che spruzzano napalm, gelatina di benzina, sul nemico, e questo significa su villaggi, donne e bambini; notizie di bersagli sbagliati e della distruzione di popolazioni innocenti. La scorsa settimana, in quarantotto ore ci sono stati sei attacchi aerei massicci. Il numero di persone uccise da entrambe le parti è stato più alto di quello registrato dall’inizio della guerra.
Il Wall Street Journal del 3 novembre in prima pagina riportava questo titolo: “Previsti aumenti nell’acquisto di forniture militari. Raddoppiano le spese per carri armati, elicotteri e altri mezzi”. “Ora che siamo infine impegnati in un ruolo di combattimento attivo in Vietnam l’intera atmosfera è cambiata all’interno del Pentagono e in altri settori del Governo”, dice un portavoce della Difesa. “L’economia viene rinvigorita… I piani di spesa sia dell’Esercito che di altri servizi promettono di dare vigore all’economia già vivace del paese… miliardi extra saranno incanalati nei portafogli in diverse parti del paese”. (…) C’è qualcosa di diabolico in questo tipo di articoli, che prevedono uno spreco colossale delle risorse del pianeta, e dell’uomo stesso.
(…)
E poi ci sono persone come Roger La Porte. Ha abbracciato la povertà volontaria e ha deciso di aiutare il movimento dei Catholic Worker [lavoratori cattolici. NdT] perché non voleva approfittare del boom economico che il Wall Street Journal presenta in modo così compiaciuto.
Molte volte quando ho parlato nelle università, gli amari commenti che mi vengono rivolti dicono che “gli obiettori di coscienza non dovrebbero beneficiare degli alti standard di vita resi possibili dallo stile di vita americano, per il quale i rostri ragazzi stanno combattendo”.
(…)
Ho sentito dire che nelle forze armate di alcuni paesi vengono distribuite delle pillole per suicidio ai soldati, da prendere in caso di tortura se vengono catturati. Certamente André Malraux ne La condizione umana ha raccontato di questi episodi e che una volta che un uomo ne aveva ucciso un altro tutto sarebbe cambiato nella sua vita, era stato superato un certo punto dai cui effetti non si poteva tornare indietro.
(…)
Senza dubbio si discuterà e si condannerà molto questo atto triste e terribile, ma tutti noi di Catholic Worker sappiamo che l’intento di Roger era di amare Dio e di amare il suo fratello.
Che la luce perpetua splenda su di lui, e che possa riposare in pace» (Dorothy Day, Suicide or Sacrifice?, in “The Catholic Worker”, November 1965, 1,7 – traduzione di Silvia Pio).