Orfeo ed Euridice

orfeo e euridice (2)

Foto di Bruna Bonino

GIANNI PETRONIO

Sono tutti nella sala grande.

Il concerto è già iniziato.

Mi sporgo per prendere la mia parte di messa e con lo sguardo abbraccio quella porzione di umanità: qualche viso conosciuto ma nulla di più.

Soggiogati da un venerdì sera che promette di mischiare le facezie con il sublime, il disincanto con la meraviglia, giovani e meno giovani sono fiori in attesa della pioggia dopo tanta arsura.

Un contrabbasso operoso edifica un mondo di ovatta, lunghe dita hanno buon gioco a diffondere un infinito languore.

Imponderabile swing, inframmezzato dalla frenesia d’un giovane piano dal sangue veloce, scalpita, s’impenna e poi come Pegaso alato s’invola in un cielo di fiamme. Uno sciame di note barocche un po’infastidisce, forse c’è troppa voglia di stupire: è vita grezza, ancora da smussare. Ma non ditegli niente, lasciatelo fare. I numeri li ha.

Si sciolgano pure le sue ali di cera, l’autarchia della sua passione sarà il fuoco che ci riscalderà.

Sotto quel soffitto alto e curvo che come un prodigo cielo tutto avvolge, vedo cuori che si stringono, sguardi che si cercano in una fragorosa intimità.

Guardo fuori. Piove.

Seguo la pioggia scivolare fine sulla luce soffusa dei lampioni e nemmeno mi accorgo che tutto tace. Il silenzio è un groppo che mi prende alla gola, che mi trascina giù verso quell’abisso da cui ogni nota è inevitabilmente risucchiata. Non so ancora che un baratro ancor più inquietante è lì, pronto che mi aspetta.

È il momento del sax: lo suona un ragazzone alto e smilzo, proiettato verso il cielo come un santo dolorante di El Greco, a cui però un coacervo di capelli tra il fulvo e il rugginoso fornisce un’aura infiammata ed eretica.

Piantato sulla superficie del palco come l’isola dell’utopia sulle acque tormentate del globo, mi fa venire in mente un dolciniano, più avvezzo alla spada che alla predicazione. Vedremo!

Un empito di suoni atri ed apocrifi irrompe nella predominanza del buio.

Note impastate e balbettanti sembrano ridisegnare la sala, che implode fino a ridursi in un antro dove un profeta invasato, accantonata la visione di un Dio, ci sventola in faccia i cenci infetti dove arrotola la sua disperazione.

Il sigillo è divelto.

Stridori metallici si contrappuntano a lamentosi gemiti; accordi di inusitata dolcezza affiorano e vivono per il tempo immediato del sacrificio. Attacchi furiosi, con noncuranza li recidono; riverberi armonici galleggiano nell’irreale silenzio delle pause che strappano il cuore.

Un getto di prepotente malignità s’irradia in ogni parte del mio corpo per poi riversarsi con uno schianto al centro dei miei pensieri. Per un tempo che mi pare interminabile cammino in un mondo vago e fumoso -nebbia che rapidamente si mangia il reale- fino a quando precipito in una tetra e asfittica palude dove una corte dei miracoli sguazza in un torbido indifferenziato. Percorsi da legioni di vermi, miserabili uomini sfuggiti alle tele di Bosch, s’avvinghiano tignosi a pezzi di cielo che hanno i colori dell’apocalisse.

Ributtanti tentacoli uncinano una luce decaduta solcata da cupe reminiscenze bronzee, lacerata da gelide epifanie violacee.

Mostruose Cleopatre e Salomè senza veli danzano al suono ossessivo dei tamburi percossi dalle ombre sfuggite alle latebre della terra. Roteando le anche sfoggiano la loro lascivia per attrarre un dio feroce che s’insinui nei loro ventri.

Il mio vicino non c’è più, si è perso. Strabuzza gli occhi e sembra affogare in quel mare denso di suoni neri come il peccato.

Lei che fino a cinque minuti fa pareva una perla del rosario, ora accarezza il bicchiere di birra, schiumante come rorido muschio sparso nei boschi di Dioniso. Menade dallo sguardo estatico, a stento trattiene l’iperfemmineo che la irrora.

Poco più indietro sento una voce di meraviglia: “Ma questo è free! Santoddio questo è free! Sono vent’anni che non sento qualcosa del genere!”

Nel brusio che si è scatenato saltano fuori nomi del calibro di Coleman, Archie Sheep, di Coltrane che sembrano essere presi in prestito da un santorale tanto è genuflesso il tono di chi li pronuncia. Nel frattempo il Santo Eretico si arrampica su per ardite scale modali con l’acribia del ragno che tesse la tela nell’invisibile.

Nella dissacrazione del rito sussulti blasfemi gli segnano il viso.

Le vene del collo pulsano ferine e gli occhi roteano come gorghi di omerica follia.

Poi, arcuato dal peso di un cielo basso e plumbeo, vacilla sull’illimitato di cui lui stesso è stato creatore.

Il dolore è un vento funesto che s’inspessisce fino a tagliargli il respiro, il suono del sax un sibilo lontano e freddo.

Si contorce lungo linee immaginarie di estetica sofferenza, fino a quando si quieta –finalmente- nella purezza di un silenzio che la luce fioca del palco sembra proiettare al di là del tempo.

Soltanto l’Olifante riluce ancora dell’agonia del suo cavaliere, colpevole di aver dissotterrato un mondo che l’onnipotente stesso si dimenticò di creare a propria immagine e somiglianza.

Gianni Petronio

Gianni Petronio

Il testo e stato interpretato  da Niccolò Petronio in occasione della seconda edizione della festa ”Il Battito della Terra” svoltasi a San Rocco Seno D’Elvio (CN) il 12 settembre 2015.

Niccolò Petronio

Niccolò Petronio