Deconstructing Roccioletti

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LORENZO BARBERIS.

Andrea Roccioletti è un artista indubbiamente molto interessante, fino al limite di essere vagamente vertiginoso nella molteplicità di esperienze, prospettive, ricerche che mette insieme in un progetto che si intuisce in costante, tumultuosa evoluzione. In verità è possibile percepire la presenza di una teoria del tutto della sua attività artistica: il difficile è fissarla in modo chiaro e definitorio, data la molteplicità di ramificazioni e derivazioni. Proveremo comunque a mettere degli ipotetici punti fermi: male che vada, questa potrebbe essere un’ennesima variazione delle centinaia di auto-biografie artistiche che Roccioletti ha spedito a varie pubblicazioni d’arte all’interno di una sperimentazione da Queneau dell’email.

Andrea Roccioletti nasce quindi nel 1979, effettua studi classici e, dopo la maturità nel 1997, avvia una formazione multiforme che spazia dal managing teatrale presso la “Paolo Grassi” di Milano a corsi di intelligenza artificiale a Stanford, per citare solo due elementi di un vastissimo ed eclettico percorso formativo.

Nell’ambito delle arti, l’avvicinamento inizia con la scrittura e con il teatro, dove è tra i fondatori della Compagnia dei Benandanti, con cui coopera dal 2005 al 2011. Nel procedere del suo percorso artistico, pur mantenendo – sul suo blog, e su numerose riviste – la scrittura saggistica come strumento di analisi del reale, Roccioletti fa però sempre più emergere (e prevalere?) l’elemento delle arti visive, accomunate però dall’essere strumento critico – come la sua scrittura – per una comprensione acribica ed estremamente complessa del reale.

Nasce così il “marchio” P-Ars, che ancora oggi dà nome al suo blog e unifica diverse produzioni. Ovviamente questo diviene anche una riflessione meta-artistica sul concetto di brand stesso. Normalmente, questo sarebbe una frase fatta da artista smaliziato che, mentre si promuove, adotta le giuste astuzie per prendere le necessarie distanze dal marketing di sé stesso.

Ma Roccioletti appare veramente, prima ancora forse che critico, quasi insofferente delle pur inevitabili schematizzazioni, semplificazioni, razionalizzazioni che ogni procedimento (in primis quello artistico) richiede nella sua comprensione.

Al centro di P-Ars vi è, stando alla definizione di Roccioletti (coniata verso il 2007), l’idea etimologica latina; “pars” come “parte in commedia”, ruolo, e quindi anche ruolo sociale, impegno, “prendere parte”, partecipazione deandreiana.

Un’arte partecipativa quindi, fedele per certi versi ai dettami dell’Opera Aperta di Eco (che ha da poco compiuto mezzo secolo)? Compito quasi psicanalitico di un’analisi critica dovrebbe però cogliere qualcosa che vada oltre alla riproposizione di quanto dichiarato dall’autore (evitando di ridurre tutto al sagace compitino “fai un’intervista – parafrasa l’intervista”).

E allora non posso cogliere che “pars” resta nell’italiano moderno mediamente colto solo in una duplice espressione: “pars costruens / pars destruens”, a indicare nella retorica (ovvero modernamente nella scienza della comunicazione) il motore a due tempi del tema hegelian-gentiliano che ancora oggi predomina nella cultura italiana: distruzione della tesi ostile / difesa della propria tesi.

Significativo oltretutto che “Pars Destruens” prevalga decisamente nell’immaginario collettivo: e anche la P-Ars di Roccioletti appare molte volte una (proficua) “pars destruens” enormemente estesa.

Col postmoderno (a confini variabili) è stata frequentemente imbastita un’arte concettuale con lo scopo di porsi quale pars destruens dei confini dell’arte, della comunicazione e della cognizione stessa. Roccioletti, insofferente delle etichette, protesterebbe che tutta l’arte è operazione concettuale: e la protesta è oggettivamente giusta.

E più correttamente quindi si può ipotizzare che “concettuale” è etichetta che indica ciò che nell’arte mira a estenderne o distruggerne i confini, rompendo (destruens) una preesistente barriera culturale. Il cavatappi, per non dir di peggio, di Duchamp, con tutto quello che ne è seguito (e che ha preceduto, ovviamente).

Roccioletti a me sembra in linea con questa operazione, e in questo non è differente da molta arte contemporanea. Ma, se in prevalenza, l’artista mediamente sagace identifica una idea, un ambito, un concetto (per volta, almeno) su cui operare la sua ricerca, Roccioletti apre una serie di fronti che risultano talvolta (specie ad analizzare con un minimo di attenzione la sua vasta produzione) francamente spiazzanti.

Una tendenza che si trova al limite in artisti più “naif”, nel bene e nel male; ma non è il caso di Roccioletti che, se corre un rischio (di solito, a mio avviso, nel suo caso evitato) è quello di una produzione ipercolta, quella “arte che si fa critica – e quindi criptica, nota mia – di sé stessa” di cui parlava con molta amarezza Argan (va detto, dopo una celebre e sventurata attribuzione di Modigliani).

Un modo semplice e quindi inaccettabile per definire l’operazione artistica di Roccioletti è dire che si lega molto ai nuovi media e alla riflessione su di essi; ma correttamente Roccioletti (che non a caso non ha rinunciato ad operazioni artistiche off line, diciamo) sottolinea – sia criticamente, sia con la sua arte – l’erroneità di operare un distinguo virtuale/reale suggerito dall’attuale immaginario mediatico collettivo.

Come la parola di Wittgenstein è performativa, così il virtuale è tremendamente reale e, al contempo, ha modificato la realtà introducendo la possibilità di crearsi infinite maschere sociali prima impossibili da gestire.

Non a caso una delle prime opere p-arsiane, ”Only member” (2008-2015), è basata su Facebook, di cui ha creato un gruppo composto da un solo elemento, l’autore stesso (al contrario esatto di Groucho Marx, Roccioletti ha voluto essere membro di un club che accettasse solo lui come socio).

L’anno non è casuale: siamo negli anni di nascita della P-Ars, e al contempo anche della diffusione italiana di Facebook che ha portato allo sviluppo da noi del web 2.0 (con un certo ritardo che ha di fatto saltato, come impatto collettivo, la stagione più blogghistica intermedia).

A margine, un anno dopo Roccioletti col libro “La rivincita dei nerds” (2009) omaggia Jeff Kanew in un ironica guida per ossimorici nerd-wannabe (nerd è qualcosa che, insegna questo ed altri film, dovreste fuggire come la peste di essere). Come nel finale del film (di un 1984 non orwelliano: o forse sì?) alla fine l’internet 2.0 ha reso tutti nerd, volenti o nolenti: cosa che ha reso le riflessioni sulle dinamiche del web – dell’artista, ma anche di altri – da studio di una sottocultura (o controcultura) a studio della cultura di massa.

La cosa in sé (2010)

Non a caso la riflessione sulla nuova concezione di identità e di interazione delle identità portati dalle nuove tecnologie è una nuova riflessione sulla “P-Ars”, sulla “parte in commedia”, resa più complessa dal nuovo proliferare dell’uno-nessuno-centomila: che se centomila no, il “molteplice” non è più espediente da arzigogolato romanzo di Pirandello o prassi letteraria alla Pessoa. L’ultimo hater o troll su internet, magari con una scarsa grammatica, è oggi un (pessimo) Pessoa: e la riflessione al proposito – almeno quella pubblica, condivisa – è lontana da aver impostato correttamente i termini della questione (a partire dal fraintendimento virtual/reality su cui Roccioletti riflette, cercando di aprire gli occhi al pubblico sul fatto che non si tratta di ontologie diverse).

Continuano così le esperienze della P-Ars, in collaborazioni prestigiose che Roccioletti non si premura nemmeno di sottilineare più di tanto: una performance al NICO Neuroscienze Institute di Torino (2011), la presenza a Neoludica presso la Biennale di Venezia (2012).

Si esplica così il perdurare di quel doppio livello real-virtuale di cui dicevamo: la serie Signifake (2012) riflesse sulla doppiezza dei simboli, delle letture e delle interpretazioni in un modo brillante ma prevalentemente classico, quasi magrittiano, “ceci n’est pas une pomme” (e più avanti nella serie Magritte è citato propriamente); al tempo stesso, con Angela Daimone (angel/daimon?) si ragiona sull’ambiguità delle maschere in rete con la creazione di un profilo “falso” all’interno di una ricerca artistica.

O ancora: una ricerca come “Ten Years” (2013), che materifica il tempo nell’archetipo della sezione d’albero, appare come esempio di un “concettuale” (passateci il termine) estremamente “fisico”, come spesso avviene in Duchamp, ad esempio (come si è visto, anche recentemente, in Santarcangelo ad esempio).

Ma altre ricerche, come queste coeve websearches su Google, mostrano la possibilità di ridefinire gli archetipi da parte del motore di ricerca (peggio, molto peggio, se conseguenza involontaria, macchinica e non complotto di turbocapitalisti illuminati come vorrebbe certa cultura del complotto).

La ricerca su Google di Roccioletti è del 2013: è notizia di oggi, due anni dopo, del dibattito in Francia suscitato del completamento automatico con “juif” quando si ricercano Hollande e Sarkozy. Risultato delle ricerche effettuate da un consistente gruppo con tale paranoia: ma Google rispecchia questa paranoia su tutti i cercanti francesi, con risultati si presume ambivalente (allarme democratico in alcuni, paranoia protocollare in altri). E questo per dire dell’attualità di una ricerca che anticipa l’esplodere mediatico (ancora contenuto, oltretutto, qui da noi in Italia: non ha raggiunto in modo significativo la carta stampata) di due anni – eoni, in tempi internettiani.

ADV Collages (2014)

Friend Talks (2014)

Anche nel 2014 continua l’alternanza di ricerche più tradizionali – come i collages di pubblicità di ADV Collages – e altre volte a sperimentare le dinamiche nuove portate (o portate maggiormente alla luce) dalla rete. “Complimenti a pagamento” è una di queste, che al di là dell’ironia da performance surrealista mette in evidenza la monetizzazione del like, divenuto evidente soprattutto su Twitter, dove si compravendono eserciti di follower-bot. Ma in fondo, appunto, è una dinamica – come quella del trolling o dell’APS – che la rete ha solo accelerato e quindi reso più vistosa.

Sempre del 2014 è l’attività di “hacking culturale” (Roccioletti non disdegna l’etichetta di art acktivist) operata ai danni dell’intera storia dell’arte moderna, da Botticelli in poi. Un modo di nuovo, anche, per ribadire lo scetticismo rocciolettiano sulle periodizzazioni dell’arte e le schematizzazioni.

L’operazione ricorda un simile “hacking” operato da Lichtenstein sulle opere d’arte, trasmutandole nello stile dei fumetti di cui si occupava. In questo modo egli metteva in crisi l’idea consolidata alle origini Pop Art = critica del sistema consumistico, inserendo anche elementi che chi compiva tale operazione voleva tener fuori dall’equazione. La Coca Cola sì, il Rinascimento no. Ebbene: Lichtenstein ovviamente volse poi tale operazione a livello metaartistico riscrivendo nella stessa chiave pop la pop art dei suoi colleghi. Così Roccioletti, appunto, decostruisce a collage il rinascimento e l’800, ma anche, in un dipinto, la Pop Art stessa.

Altre opere del 2014 riflettono sul rapporto fans/vip che su FB diviene illusione di orizzontalità, ma anche, quasi con un rimando appunto alla Pop Art più tradizionale, ragionano collagisticamente sulla società dei consumi in generale, sia sfruttando l’estetica della sovrabbondanza di segni che quella del minimale.

Al termine del 2014 emerge anche un progetto importante come ResponsAbility di cui Roccioletti è curatore, e in cui avviene l’approfondimento del tema della responsabilità (in senso non solo artistico), quel “fare la propria p-ars” che è al centro della sua riflessione; con interventi di prestigio a partire, per l’arte, da quello di Michelangelo Pistoletto.

Anche gli interventi del 2015 proseguono in ordine sparso nella macro-direzione tracciata, riflettendo sempre, in modi sempre nuovi, sulla presenza-assenza dell’opera d’arte e quindi sul tema dell’Aura, centrale nella riflessione artistica da Walter Benjamin in poi.  Molte sono le ricerche avviate, al punto che non si possono citare tutte. Le più suggestive ci paiono lavorare però sui limiti tecnici dell’arte stessa, su composizione e scomposizione dell’opera.

Tra le opere più impegnative è la Anti-Performance di cui qui sopra citiamo un brano della spiegazione sul sito dell’autore: Roccioletti in pratica compie come “arte performativa” quello che è in apparenza una normale operazione artistica: dipinge sull’impronta dei quadretti tradizionali di veduta che vengono esposti per un’ora e poi, però, distrutti.  In tal modo l’arte è indiscutibilmente limitata all’atto performativo, che è però tale in senso tradizionale, creando un interessante cortocircuito estetico.

All’opposto, ungarettiano per brevità ed efficacia questo poema in htlm, dove ironicamente una sintetica frase poetica da Baci Perugina (“lo spazio tra di noi”) è ulteriormente asciugata, alla Marinetti, nell’equivalente comando di spaziatura html. Quello che può apparire un calembour per nerd non è però privo di significato nel contesto di un lavoro, come quello di Roccioletti, tutto incentrato sul rapporto autore/osservatore, dove l’opera diventa, in fondo, “lo spazio tra” questi due soggetti.

La maggior parte di lavori vanno nel senso di una direzione collagistica già prima presente nell’opera dell’artista, ma che forse qui si fa più accentuata, come evoca anche una mostra come Snapshot, cut-and-paste di immagini pubblicitarie che ricorda il cut-up bourroghsiano come metodo di produrre folgorazioni per inconsueti accostamenti (quelli che produce, tra l’altro, la nostra amata bacheca di facebook, dietro cui spesso sospettiamo una diabolica mente informatica).

Assembly

In Assembly, invece, Roccioletti scompone delle istruzioni di assemblaggio, che vanno così ri-assemblate visualmente, come un puzzle, dallo spettatore; uno stilema che viene riapplicato anche alle carte dei tarocchi, che per definizione (insegna anche Jung) sono pensate per essere mescolate e ricomposte in nuove narrazioni da uno scrittore calvinista postmoderno o da una zingara cartomante.

Francesco Bonami mentre esamina, tra l’incuriosito e il perplesso, l’opera di Roccioletti.

L’Assemby apre alla ricerca del “Dogberryism”, lavoro che sarà portato ad Artissima e recensito sulla Stampa da Francesco Bonami.

Dogberry è un personaggio dello shakespeariano “Molto rumore per nulla” che spesso commette “malapropismi”, ovvero pronuncia proposizioni sbagliate invertendo le parole. Così fa Roccioletti, assemblando in queste sue opere parole fino a renderle indecifrabili. “Quasi un rebus da risolvere” dice Bonami nella recensione video dell’opera; e in effetti i lavori dell’autore interrogano sempre l’osservatore, in modo spesso ironicamente provocatorio.

Insomma, “A long way trough”, quella di Roccioletti, come recita anche la sua ultima mostra presso la Nroom Artspace di Tokyo. Un percorso in teoria non ancora sterminato in termini oggettivi di anni (non siamo ancora al decennale della P-Ars) ma che la ricchezza e varietà di sperimentazione fanno percepire come più vasto.

Alla fine di questo “lungo percorso” cosa possiamo sintetizzare su Roccioletti? L’elemento più positivo che ci pare di poter cogliere del suo lavoro è la capacità di dire (e non solo in teoria, ma nella pratica delle opere artistiche) non solo il digitale, ma il fatto che non vi è scissione tra l’apparente roccia della realtà su cui ipotizziamo di fondare la nostra vita e la sabbia del virtuale da cui formalmente tutti prendiamo saggiamente le distanze (in fondo, strutturalmente, la distanza non c’è nemmeno nell’iniziale parabola evangelica: i granelli di sabbia altro non sono che piccole rocce, in fondo).

Probabilmente questa lettura critica forza (come sempre: ma qui è più evidente) l’arte di Roccioletti in un letto di Procuste che mortifica la poliedricità del suo lavoro. Ma autorizzati, in questo, dallo stesso autore, consapevole dei meccanismi della ricezione, che nella bella intervista che abbiamo fatto si domandava “se sia ancora necessaria una certa distanza tra l’artista e il suo pubblico, oppure se sia naturale presupporre che ci sia un coinvolgimento, un’interazione; sperimentare, a partire dalla consapevolezza di quanto fosse importante il concetto di “permanenza” dell’arte passata, la “falsa” permanenza dell’opera d’arte oggi, di fronte a mille fattori che la trasformano, la cambiano, anche a dispetto dell’intenzione di integrità desiderate dall’artista.”

Per cui, se si è sovrainterpretato, scusateci.

E sappiate che (non) si è fatto apposta.