Umiliati e salvati

I SUPERBI DEL CANTO XI DEL PURGATORIO… CON QUALCHE DIVAGAZIONE ATTUALIZZANTE…

Dante-locandina

STEFANO CASARINO.

Il c. XI del Purgatorio inizia con il rifacimento della preghiera più umile (ed essenziale) del Cristianesimo, quella insegnata direttamente da Gesù, che certamente non voleva lungaggini e rituali troppo complicati (mi pare che questa, come anche altre sue raccomandazioni, non sia stata tenuta nel debito conto dai suoi successori!): il Padre Nostro. Dante la rielabora splendidamente in otto terzine e la fa recitare coralmente e sommessamente dal gruppo dei superbi che incontra nella prima delle sette cornici in cui è diviso il monte del Purgatorio.

Si inizia, dunque, con una magnifica lezione di umiltà e di altruismo (en passant, quanto ce ne sarebbe bisogno oggi: soprattutto a livello politico, in questi tempi di boria toscana e lombarda!): queste anime che si trovano in un luogo comunque privilegiato, ove soggiornano per il tempo necessario per purificarsi e per poter raggiungere la beatitudine eterna, non pregano per se stesse, ma per coloro che sono ancora in vita (vv.22-24), ancora esposti a quelle tentazioni dalle quali loro sono ormai immuni.

È commovente questa “corrispondenza di amori sensi”, questo legame di autentica solidarietà tra le generazioni passate e quelle presenti: un monito a considerare l’umanità tutta quanta come un’unica, grande famiglia.

Bisognerebbe leggere integralmente l’intero canto, fare cioè una completa Lectura Dantis, riprendendo la bella e importante tradizione inaugurata da Giovanni Boccaccio a partire dal 23 ottobre 1373 nella chiesa di S. Stefano di Badia a Firenze. Perché proprio quella chiesa? Per più motivi, certamente.

È il luogo in cui Dante incontrò per la prima volta Beatrice; ma era soprattutto definita “la chiesa del popolo”, e ciò certamente importò moltissimo a Boccaccio, fedele allo stesso intendimento del Convivio dantesco: quello, cioè, di avvicinare la cultura al popolo e il popolo alla cultura, somministrando “lo pane de la scienza” a tutti coloro che volessero (ieri, e che vogliano oggi) accostarvisi.

Divulgare la conoscenza: intento che bisognerebbe perseguire sempre, evitando che la cultura si rinchiuda in aule universitari o in luoghi protetti ed esclusivi, che si “autoghettizzi” e si confonda criminalmente con la pedanteria e col compiaciuto sfoggio di erudizione.

Ancora una parola su Boccaccio, colui che entusiasticamente coniò il termine “divina” per indicare l’opera dantesca.

Ieri come oggi e come sempre abbiamo bisogno di entusiasti, di chi sappia contagiare con la sua passione gli altri: i melomani hanno appellato con tale termine, “la Divina”, solo una cantante, e sia nel caso della letteratura che in quello dell’interpretazione dell’opera lirica, mai aggettivo fu più calzante, con buona pace di filologi e musicologi arcigni!

Sempre Boccaccio, nel suo Trattatello in laude di Dante (1357-62) ci fornisce qualche indicazione preziosa per comprendere sia il carattere del Poeta fiorentino che il canto di cui stiamo parlando: Fu il nostro poeta … d’animo alto e disdegnoso molto … Molto somigliantemente presunse di sé, né gli parve meno valere, secondo che li suoi contemporanei rapportano, ch’el valesse.

Cioè, a Dante certamente non faceva difetto l’autostima!

Sapeva benissimo di essere colpevole di “superbia”, di averla e provarla a tutti i livelli: relativa al suo casato, alla sua bravura artistica, alla sua fede e capacità politica.

Guarda caso, la stessa tripartizione che troviamo qui in questo canto e che vedremo tra un attimo. Per questo, gli viene del tutto naturale procedere in compagnia dei superbi con la stessa andatura e allo stesso modo di costoro: che avanzano a capo chino, piegati dal grave peso del macigno che sostengono sopra il capo. Pena data per contrappasso: in terra sono andati a testa troppo alta, qui camminano a testa molto bassa. Dante non ha nessun macigno da sostenere, ma la consapevolezza di essere proprio come loro e di finire proprio lì, presumibilmente, dopo la sua morte … il che non gli impedisce di essere anche lì superbo, sia pure in modo indiretto, come vedremo!

Dicevamo che il canto è tripartito: Dante, cioè, incontra tre anime, ciascuna delle quali rappresenta un perfetto “exemplum superbiae”, cioè un modello di superbia, da condannare ma da cui soprattutto trarre ammonimento.

Il primo è rappresentante dell’arroganza nobiliare: Omberto Aldobrandesco. Riconosce solo ora, dopo la morte, che il vanto di appartenere ad un’importante famiglia, quello che presumibilmente gli faceva dire: “Voi non sapere chi sono io” (quanto è ancora attuale questo modo di rapportarsi agli altri, vero? magari non per orgoglio dinastico, ma perché si ha un portafoglio particolarmente fornito o perché si è un potente di spicco o amico e parente di personaggi potenti … insomma, le motivazioni possono essere diverse!) non ha nessun fondamento. E ora è tutto deferente, vuol suscitare la pietà di Dante (e del lettore, ça va sans dire).

Il terzo è Provenzan Salvani, immagine del politico di successo, che ha fatto tanto parlare di sé quand’era potente e che ora è ricordato a malapena: di quanti dei nostri recenti politici si potrebbe dire lo stesso? Proviamo a fare ai ventenni di oggi qualche domanda sui politici della Prima Repubblica e constateremo una piena, assoluta ignoranza in merito.

Vanitas vanitatum, omnia vanitas! Ma tornando a Salvani: si è salvato (si perdoni il bisticcio) perché in vita ha saputo umiliarsi per un amico, andare mendico a raccogliere i fondi per riscattarlo. Non esattamente come oggi, vero? O forse sì, tranne che le “collette” che i nostri politici fanno hanno finalità decisamente meno nobili!

E la seconda anima? Beh, è quella di Oderisi da Gubbio, che intrattiene più a lungo Dante (vv.79-142), insistendo sul termine “onore” (ripetuto ben tre volte: il nostro Poeta non perde mai occasione di insistere sul 3!). Al saluto di Dante, che si stupisce piacevolmente di essere a contatto con cotanta celebrità,  Oderisi replica che ora l’”onore”, cioè il primato nella sua arte – la “miniatura”: il termine oggi designa oggetti minuscoli ed ha assunto tale significato a partire dal 1400, ma nel Medioevo indicava l’arte di decorare le lettere iniziali dei capitoli in un manoscritto, dal latino minium, denotante il minerale dal quale si ricava il colore rosso tocca ad altri, a quel Franco Bolognese che sa far “ridere”, cioè risplendere di più, le carte, impiegando colori più brillanti.

Un artista soppianta l’altro, cambiano le mode, il successo è passeggero, effimero: vale per la miniatura, come per la pittura.

Cimabue è stato sostituito da Giotto: l’alunno supera il maestro, la generazione successiva rimpiazza quella precedente, fa meglio di lei.

È la stessa concezione del progresso che sostanzierà due secoli dopo l’opera di Giorgio Vasari, Vite de’ più eccellenti pittori, scultori, architettori italiani da Cimabue insino ai tempi nostri (1550 e 1565): ci crediamo ancora, oggi? davvero anche per noi, chi viene dopo è migliore di chi c’è stato prima? davvero il nuovo è sempre e comunque da preferire all’antico?

Dante ne era personalmente convinto, tanto da applicare questa regola anche alla poesia (alla cultura in genere, potremmo dire) e a far affermare ad Oderisi che un Guido (Cavalcanti, ovviamente) ha sottratto all’altro Guido (Guinizzelli) l’onor della lingua, il primato poetico, e forse (un forse decisamente ipocrita!) c’è già chi scalzerà entrambi: cioè, proprio colui al quale ironicamente Oderisi sta parlando! Ecco qui la compiaciuta superbia di Dante: interpreti più benevoli (ma forse meno in sintonia con l’Autore) sostengono che è un’allusione generica, che non è affatto detto che intendesse fare riferimento a sé: a loro consiglierei di rileggersi quanto abbiamo citato sopra di Boccaccio!

Comunque, non è su questo che si deve concentrare la nostra attenzione, ma sull’invettiva contro il mondan romore, efficacissimo sintagma.

Il “mondo”, quello dei vivi, è lontanissimo qui nel Purgatorio, lo si vede da una prospettiva del tutto diversa: che sarà ancora maggiore nel Paradiso, ove apparirà come un punto. Già così ne aveva parlato Cicerone nel Somnium Scipionis e così ne parleranno Leopardi nella Ginestra e Pascoli (l’atomo opaco del male) nel suo X Agosto.

Ma è quel “romore” che vale la pena di analizzare meglio: come non pensare al c. V di Catullo, ai rumores senum severiorum, ai brontolii, ai mugugni dei vecchi troppo accigliati che disapprovano l’amore dei giovani e come non pensare all’anglismo oggi imperante “rumors” (o rumours, nella grafia britannica), stretti parenti del “gossip”. In questo degenerano moda e successo, e Dante sempre quasi l’avesse previsto: in chiacchiere troppo spesso malevole e comunque sempre inconsistenti.

È doveroso allora distinguere tra “moda”, “fama” e “gloria”, termini per nulla sinonimici. Il primo è quanto impera tra le persone superficiali, le prede ideali del consumismo indotto dai media: compriamo subito l’ultimo gadget alla moda, l’ultimo ammennicolo alla moda, ma anche l’ultimo libro o l’ultimo brano musicale alla moda. Tra un anno, che resta di ciò?

La “gloria”, invece, pertiene solo a Dio, come nella dossologia liturgica: perché suo è il tempo, che è il vero arbitro della “fama” umana.

La fama si misura sulla durata, sulla lunga distanza e sulla lunga memoria: se resta il ricordo, se il tempo non lo erode inesorabilmente, allora essa esiste. Ed è l’unica garanzia di valore.

L’aveva ben capito Orazio, quando orgogliosamente afferma di aver eretto un monumento più duratura del bronzo coi suoi versi, più resistente di imponenti monumenti. La poesia, apparentemente fragile e futile, può se è grande, vera poesia vincere il tempo. E l’aveva capito benissimo anche Ariosto, se rileggiamo la sua allegoria del Tempo e della Poesia alla fine del c. XXXIV e all’inizio del c. XXXV dell’ Orlando Furioso: sulla Luna, dove si ritrova tutto ciò che si perde sulla Terra, un vecchio espedito e snello (il tempo) rovescia nel fiume del Lete, cioè dell’oblio, le piastre con tutti i nomi degli uomini, soltanto pochi dei quali vengono salvati dai cigni bianchi (i poeti).

Ma, commenta Ariosto, “sono, come i cigni, anco i poeti rari/poeti che non siano del nome indegni,/[…]sono i poeti e gli studiosi pochi;/che dove non han pasco né ricetto,/insin le fiere abbandonano i lochi.” (Orl.Fur. XXXV, ott. 23, 1-2 e ott. 30, 2-4).

Torniamo a Dante, che prosegue con le sue considerazioni, fatte esprimere da Oderisi: misurando col metro dell’eternità, che differenza c’è nel morire subito dopo esser nati, da bambini, da “infanti”, prima cioè di aver imparato a parlare, di aver ammesso le primi voci onomatopeiche dei neonati (il pappo e il dindi: che bella la lingua dantesca!) oppure nel morire a tarda età?

Seneca potrebbe rispondere: non vivere bonum est, sed bene vivere (non il fatto di vivere è un bene, ma lo è il vivere bene): ma questo è un pensiero troppo laico per Dante!

E ancora: cosa sono mille anni rispetto all’eternità? Un muover di ciglia, un battito di palpebre.

Potrebbe commentare un altro Sommo: Ma l’uomo, l’uomo orgoglioso,/ammantato d’una breve autorità,/ sommamente ignorante di ciò di cui si crede più sicuro,/nella sua essenza fragile, come uno scimmione collerico,/compie tali trucchi fantastici, al cospetto dell’alto cielo,/
che gli angeli piangono
(W.Shakespeare, Misura per misura).

Mille anni: un’impressionante quantità di tempo, a stento immaginabile.
Eppure Dante a 750 anni è arrivato: in fondo ha raggiunto i tre quarti di quella cifra. Con lui – né avrebbe potuto essere altrimenti! – il tempo è stato benevolo e galantuomo e lo ha ripagato dei molti torti subiti in vita, dalla sua odiosamata Firenze.

Buon compleanno, Dante.

“Oh!”, diss’io lui, “non se’ tu Oderisi,

l’onor d’Agobbio e l’onor di quell’arte

ch’alluminar chiamata è in Parisi?”.

 

“Frate”, diss’elli, “più ridon le carte

che pennelleggia Franco Bolognese;

l’onore è tutto or suo, e mio in parte.

 

Ben non sare’ io stato sì cortese

mentre ch’io vissi, per lo gran disio

de l’eccellenza ove mio core intese.

 

Di tal superbia qui si paga il fio;

e ancor non sarei qui, se non fosse

che, possendo peccar, mi volsi a Dio.

 

Oh vana gloria de l’umane posse!

com’ poco verde in su la cima dura,

se non è giunta da l’etati grosse!

Credette Cimabue ne la pittura

tener lo campo, e ora ha Giotto il grido,

sì che la fama di colui è scura.

 

Così ha tolto l’uno a l’altro Guido

la gloria de la lingua; e forse è nato

chi l’uno e l’altro caccerà del nido.

 

Non è il mondan romore altro ch’un fiato

di vento, ch’or vien quinci e or vien quindi,

e muta nome perché muta lato.

 

Che voce avrai tu più, se vecchia scindi

da te la carne, che se fossi morto

anzi che tu lasciassi il ’pappo’ e ’l ’dindi’,

 

pria che passin mill’anni? ch’è più corto

spazio a l’etterno, ch’un muover di ciglia

al cerchio che più tardi in cielo è torto.

Pg. XI, 79-108