Le forme del bello

Brandimarte

GABRIELLA VERGARI

Che cos’ è l’arte? L’arte è: non ha bisogno di paragoni né tantomeno di umanità, è un assoluto, un puro pensiero – frasi recise come colpi di schioppo pronunciate con calma assoluta mentre Licini si è fatto paonazzo per l’emozione e vorrebbe salire sul tavolo e urlare tutto come un proclama.

Così P. F. Brandimarte nel suo impegnativo L’Amalassunta, (premio Calvino 2014), Giunti 2015, rappresenta Osvaldo Licini a confronto col teorico dell’astrattismo, Carlo Belli, che gli apre i confini di una diversa pittura, teorizzata in Kn, una sorta di vangelo del nuovo movimento, ispirato a Kandinskij ma soprattutto a luoghi immaginari da raggiungere però con regole esatte e quadrature matematiche. Ci sono Fontana, Ghiringhelli, Bogliardi, Reggiani, tutti i membri del cosiddetto gruppo del Milione, e il pittore di Montevidone, appena reduce dall’ennesima delusione al Palazzo delle Esposizioni, sente per un attimo il calore della condivisione, consolato dall’inattesa rivelazione di non essere del tutto solo nel tormentato rapporto con la figura e le forme, di poter avere insomma dei compagni. Ma è il sollievo di un attimo. L’entusiasmo della repentina scoperta lascia ben presto il posto alla delusione dell’asfissia provata per dettami così definiti e tecnici, comunque lontani dal proprio mondo e dalle proprie vedute e dà in escandescenza. Il teorico guarda gli occhi di Osvaldo, due punti neri, due Kn incendiati, e si domanda come faccia a dipingere quadri così quieti – perché quieti e sognanti gli sembrano – e allo stesso tempo essere talmente ostinato e aggressivo (…) e giudica i suoi attacchi di furore un patetico tentativo di sfuggire le delusioni e le amarezze, il futuro oscuro che lo attende; e allora scaccia il suo fastidio, lo compatisce , gli sorride.

Vorremmo poterlo fare anche noi, intendo comprendere (più che compatire) e sorridere, davanti a certe proposte d’arte contemporanea da sindrome de “I Vestiti Nuovi dell’imperatore” di anderseniana memoria, di fronte alla sottile ma persistente sensazione di essere presi in giro, di non saper più discernere l’arte da ciò che non lo sia e soprattutto di partecipare ad un sistema sfuggente e dissonante rispetto ai saldi riferimenti estetici comunemente condivisi.

Eppure non di rado il fascino resta e molte volte seduce al di là della mera od immediata intelligenza dei tratti e delle intenzioni, a confermare che da sempre gli artisti, quelli veri e non i millantatori (ai posteri l’ardua sentenza), fanno proprio questo: varcano il limite, dialogando col passato e trasportandolo “oltre”.

Ce lo ricorda ad esempio e molto bene Picasso, questo Cartesio dell’arte novecentesca che Catania sta attualmente celebrando con la mostra dedicata alle sue passioni: la grafica, la ceramica, le donne (moltissime e quasi tutte o suicide o impazzite), i tori, il teatro…

picasso catania

Con appena quaranta milioni, poco importa se di euro o di dollari, un emiro arabo si è aggiudicato il privilegio di sottrarre allo sguardo dei visitatori il quadro: “ Figura de mujer en la guerra de Espan͂a” scelto a logo dell’evento, ricordandoci, semmai lo avessimo dimenticato, che l’arte ha pure un mercato e vale non solo di per sé ma proprio in quanto bene e che, come per quasi tutto il resto, chi più ha più può. Ci auguriamo che l’opera in questione, la prima alla quale Picasso ha affidato un chiaro messaggio politico antifranchista,  non marcisca per sempre in un caveau svizzero ma venga restituita al prossimo, magari in qualche fondazione privata, in uno slancio di mecenatismo e filantropia che è forse troppo sperare ma non sarebbe nemmeno inusuale nell’universo di cui parliamo.

Quanto all’ “oltre”, ci si può tra l’altro divertire ad immaginare le reazioni dei diversi destinatari di fronte alle 38 incisioni a bulino intese ad illustrare la Carmen attraverso l’estrema stilizzazione di visi di donna e di uomo fino a giungere a tre piccolissimi segni (due occhi ed il naso?) all’interno di un cerchio.
Bellissime, e non facili a trovarsi esposte insieme col resto, le 41 incisioni del 1948, ispirate ai poemi di Louis de Gόngora che Picasso ricopia a mano e correda di disegni di visi e corpi femminili tutti diversi tra loro o le ceramiche (poche rispetto alle 4000 e più realizzate, ma sempre particolari) declinate in varie fogge e forme.

Potremmo forse trovare in questa artista sempre proteso alla sperimentazione, sempre desideroso di evolversi, una risposta più compiuta su cosa sia l’arte? Non solo pensiero, ma energia che fluisce, vita che si sublima attraverso le passioni?

       Nella pittura si deve parlare di problemi. I dipinti non sono altro che ricerca e sperimentazione. Non realizzo mai un quadro come opera d’arte. Tutto è ricerca. Continuo a cercare e in questo costante mettere in discussione c’è un’evoluzione logica. E’ per questo che numero e appongo la data su tutti i miei lavori.

Così, non a caso, conferma lui stesso, ammonendo: No, la pittura non è stata inventata per decorare le case. La pittura è un’arma di guerra per attaccare e difendersi dal nemico.

E che dire, allora, della scultura, l’arte che più si presta ad adornare gli esterni ed i luoghi di pubblico accesso, trasmettendo messaggi destinati alla più ampia diffusione?

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Una lezione in tal campo sull’arte e sul suo senso ultimo la si può attualmente ricavare dal Palazzo Strozzi di Firenze, dove è stata allestita un’imperdibile mostra: “Potere e pathos”, nata da una sinergia internazionale tra il J. Paul Getty Museum di Los Angeles, la National Gallery of Art di Washington e la Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana. Con un allestimento di sapiente essenzialità, 51 bronzi di età ellenistica (IV-I sec. a.C.) dispiegano uno dopo l’altro gli altissimi livelli raggiunti dalla prima forma di globalizzazione del linguaggio artistico impostasi nel mondo allora conosciuto dalla morte di Alessandro Magno in poi. E se in molti casi le statue di condottieri e divinità rispondono prioritariamente ad una volontà di propaganda politica, inevitabilmente filtrata attraverso il codice iconico e simbolico, in altrettanti la cura tecnica ed il naturalismo delle pose e delle espressioni si traducono in intensità emotiva e dinamismo psicologico di rara qualità e (non stupisca) sempreverde attualità. Ad accogliere nella prima sala i visitatori, il cosiddetto “Oratore”, alto sul suo basamento, con la destra tesa nell’atto del silentium facere (chiedere silenzio), quasi virtualmente aprisse un portale sulla dimensione del passato e sul “discorso” che i bronzi in mostra intendono proporre. Via via si scoprono acconciature, tratti somatici, toghe e pepli, sguardi penetranti e nasi decisi, fino ad arrivare al “Pugile” che si staglia al centro della “sua” sala, ancora ricoperto di sangue e con le mani avvolte dalle fasce del combattimento appena finito, le membra possenti ma soprattutto il volto dal naso rotto che sembra guardarci perplesso, quasi ci chiedesse se è proprio così che vogliamo che si sia ridotto, se sono queste le fatiche e le sofferenze che pretendiamo da lui. A guardarlo di spalle sembra vivo, potrebbe alzarsi ed andarsene da un momento all’altro, non pare affatto che abbia più di duemila anni.

Che ne direbbero gli astrattisti di lui? Resterebbero convinti del loro puro pensiero o dovrebbero forse riconoscere che, novella Proteo, l’arte possa assumere mille forme e mille manifestazioni pur di rivelarsi la forma privilegiata del bello?

QUI il video ufficiale della mostra “Potere e pathos” a Firenze

QUI la media gallery della mostra “Picasso e le sue passioni” a Catania