Fior della tua pianta

Romanzo di Dario Gigante

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Avrei avuto bisogno di qualche incoraggiamento, di un po’ di gentilezza, che mi si aprisse un poco il cammino, invece tu me lo nascondevi, sia pure con la buona intenzione di farmene imboccare un altro. Ma io per questo non ero adatto.

(Franz Kafka, “Lettera al padre”)

Abitavamo a un tiro di schioppo da Sant’Antonio Nuovo. E proprio a Sant’Antonio lego il primo ricordo nitido dell’infanzia, tanto a fondo quei blocchi di pietra, ora squadrati, ora cilindrici, erano riusciti a penetrare il mio immaginario di bambino. Ben rammento la prima volta in cui mi apparve il frontone, perché fu anche la volta in cui pensai che nulla vi potesse essere di più bello. Allora, bello e monumentale erano per me tutt’uno. Avrei appreso solo col tempo a delibare le piccole cose, le inezie da scordare nell’istante stesso in cui se ne gode perché secondo noi non ha senso chiuderle nei serragli della memoria, mentre loro, invece, accampatesi nel quotidiano, lo lavorano poco a poco, come il rivolo scava la roccia. I fatti ordinari, gli stessi di cui, negli anni, ho scritto e narrato. Allora no, ciò che mi strappava grida di giubilo apparteneva all’ordine del titanico. E benché, quando sviluppai un’estetica adulta, anche Sant’Antonio, aggraziata come un bovide all’ingrasso, cominciò a piacermi molto meno, conservai sempre, per lei, una sorta di rispetto reverenziale che mi impediva di criticarne apertamente lo stile. A un altro edificio egualmente anacronistico e tanto pomposo, sorto a Trieste o fuori, nell’Impero o in qualche angolo misconosciuto d’Italia, non sarei riuscito a tributare un simile rispetto. E tuttavia sentivo di doverlo a Sant’Antonio che, quand’ero piccolo, mi toglieva il fiato e, più ancora, agli uomini, agli ercoli nerboruti che, non molti anni prima, l’avevano eretta blocco dopo blocco, semidei di cui favoleggiavo le dimensioni sovrumane, le braccia possenti, le gambe maestose come sequoie secolari.

Sant’Antonio Nuovo, in fondo, era mio padre, anche lui un monumento che nemmeno la bora, quando soffiava all’impazzata, poteva flettere. Mio padre, l’emanazione della Felix Austria, l’uomo robusto e spalluto che immaginavo a sorreggere, con l’austerità di un telamone, tutto ciò che andava sorretto: la casa, la scuola, la famiglia. Me, sì, anche me. Quando mi prendeva in braccio, mi sembrava di spiccare il volo verso cime inesplorate. Quant’era alto… Continuai a percepirlo tale anche quando crebbi. Ogniqualvolta m’incantavo a fissare Sant’Antonio, veniva sempre il momento in cui lui mi afferrava, mi sollevava su, fino alla sommità del suo corpo, e, in braccio, mi riportava a casa.

Sarebbe dovuto capitare quant’è successo, perché comprendessi fino a che punto il tessuto che reputavo unitario, intonso, privo della ben che minima smagliatura, fosse invece sbrindellato e consunto. E perché anch’io riuscissi a scorgere gli squarci che il dolore aveva aperto, il tessuto ha dovuto cedere, miseramente.

Se ogni uomo è un’insolubile complessità di parvenze e di mistero, mio padre lo è stato a maggior ragione. E, questa complessità, rimango solo io a poterla sciogliere, conscio che, con ogni probabilità, non vi riuscirò.

(Prologo del romanzo)

Biografia minima

Dario Gigante è nato nel 1982. Si avvicina alla scrittura in età universitaria. Da sempre appassionato di cinema, consegue, dopo la laurea in filosofia all’università di Trieste, un master in sceneggiatura a Gorizia, coniugando così la propensione allo storytelling all’amore per la settima arte. Ha collaborato e collabora tuttora con diverse riviste web, occupandosi per lo più di cinema. Dopo uno sfortunato esordio letterario, è ora in libreria con il suo secondo romanzo, Fior della tua pianta (Arpeggio libero).

Il rapporto con la scrittura, i libri

La scrittura di un romanzo è la frequentazione reiterata, assidua, esigente di personaggi che reclamano un’esistenza, di storie che anelano a uno sviluppo, di luoghi che pretendono di essere reificati. Di sentimenti che sbocciano sulla pagina come nel cuore del romanziere. La scrittura è un esercizio di potere e talvolta un abuso, perché l’autore dispone di vite altrui come un tiranno o, peggio ancora, una divinità. Ma è anche una riserva di affetti da coltivare uno a uno. Nello scrivere non vi alcunché di disumano, in fondo, nel bene come nel male. L’uomo è un animale narrante per costituzione e lo scrittore non fa altro che trasformare in un’arte e, nella più rosea delle ipotesi, in una professione, un’attitudine naturale.

Fior della tua pianta, nonostante il titolo che cita, deformandolo, un verso di Pianto antico, è ambientato, in larga parte, nella Trieste asburgica di fine Ottocento. In realtà il testo è un fluviale flashback nel quale il protagonista-narratore rievoca un episodio della giovinezza, consumatosi proprio a Trieste. Un episodio che gli ha dissestato la vita.

Nell’inventare i personaggi e le loro reciproche combinazioni sono partito da un luogo comune, quello per cui i genitori desiderano sempre il meglio per i figli, e mi sono divertito a scardinarlo. Ciò che, in fondo, la letteratura è chiamata a fare. Cogliere l’eccezione alla regola o, meglio ancora, l’eccezionale che si mimetizza con l’ordinario. Può un genitore arrivare a nutrire invidia del bene del figlio? Così è nata la storia di Amedeo, un giovane che pubblica senza troppa convinzione un romanzo che si rivelerà un successo, e di suo padre, un venerando poeta fallito. Tra loro si inserisce la figura fulgida e misteriosa di una donna.

Fior della tua pianta è, fondamentalmente, un romanzo sulla perdita dell’innocenza, perché Amedeo, attraversando l’amore e il sesso, l’invidia altrui e la propria gelosia, scoprirà che il mondo non è lindo come credeva.

Quando si apprende il mestiere di scrivere, è consueto rifarsi a modelli letterari. Italo Svevo non è solo una delle “comparse” della vicenda: il tema della gelosia che si fa ossessione è debitore, nei suoi sviluppi, alle atmosfere torbide di Una vita e di Senilità, di cui il padre del protagonista sta leggendo il manoscritto. Ma come negare un’influenza di Proust? Nell’immagine, poi, di un Impero austro-ungarico al declino non posso escludere che si avverta un’eco di Joseph Roth. E, forse, l’irresistibile chimica delle passioni che sembra sovrintendere alle relazioni tra i personaggi è la stessa che indaga Le affinità elettive di Goethe o il suo omologo d’oltreoceano, Il buon soldato di Ford Madox Ford.

Trieste, foto di Guido Cupani

Trieste, foto di Guido Cupani