In avanti

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FEDERICO BATTISTUTTA

Rileggere Teilhard in un mondo che cambia
1. Il cono e il mandala
Un merito indiscusso di Teilhard de Chardin è quello di aver provato a instaurare un dialogo vitale tra il cristianesimo e il mondo moderno, con il riconoscimento implicito che ciò che si vuole presentare come una tradizione posta fuori dalle coordinate temporali, in realtà si trova inscritta dentro una processualità storica, aperta a possibili esiti inediti. «A dominare i miei interessi – scriveva a Léontine Zanta – è lo sforzo di stabilire, e di diffondere intorno a me, una nuova religione (chiamiamola un migliore cristianesimo, se volete) in cui il Dio personale cessa di essere il grande proprietario neolitico di una volta per diventare l’anima del mondo». Già con Teilhard si può parlare di una “nuova alleanza” tra fede, scienza e cultura, ricomponendo un sapere umano parcellizzato, scisso, in frantumi. Sempre all’interno di questo confronto con la modernità vi è stata anche un’apertura al dialogo con il pensiero laico, ad esempio con il marxismo, secondo una prospettiva in cui il “principio speranza” si coniuga con una prassi sociale di liberazione. Non solo: egli ha, per certi versi, anticipato il paradigma di genere in teologia; infatti nel culto mariano vedeva il bisogno di «femminizzare un Dio (Jahwé) orribilmente mascolinizzato, superando un certo ‘paternalismo neolitico’». Per tutto ciò, lo sappiamo, Teilhard subì isolamento e ostracismo. Ci sono dunque ampi motivi per apprezzare ciò che ci ha lasciato in eredità. Vi è innanzitutto in Teilhard l’intuizione di un processo cosmico ascendente verso l’unità di Dio e, a partire da ciò, vi è un pensare in grande, un incontenibile desiderio di abbracciare tutto. È un punto d’osservazione mistico. L’intero divenire cosmico, biologico e sociale viene raffigurato dal gesuita francese come un cono, in cui la base è costituita dalla materia elementare originaria (la “Stoffa dell’Universo”), le sezioni successive rappresentano la varie fasi dei processi evolutivi, mentre il vertice è il Punto Omega, il più alto livello di complessità e di coscienza verso cui l’universo tende nella sua evoluzione. In altre pagine Teilhard illustra l’intero fenomeno evolutivo ricorrendo a un altro schema, come se il cono questa volta venisse visto dall’alto. Il Punto Omega, il punto di convergenza, diviene il centro di una serie di centri concentrici, come i mandala tibetani, lo yantra hindu o i rosoni delle chiese romaniche o gotiche. A questa prospettiva mistica se ne aggiunge un’altra,
di diversa natura. Egli, come è noto, pone a fondamento di tutta la sua ricerca l’evoluzionismo, assunto come vero e proprio mito di riferimento. Ma il tempo non trascorre invano. Oggi, a sessant’anni dalla sua morte, possiamo rileggerne la sua testimonianza arricchiti da quanto il tempo ha sedimentato. La lettura critica che segue si situa in questa prospettiva, lungo alcune direttrici considerate fondamentali per un discorso teologico e religioso a venire: prospettiva ecologica, animalista, postcoloniale, pluralista ed epistemologica.

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Fotografia di Bruna Bonino

2. Prospettiva ecologica
Diversi commentatori considerano Teilhard come l’anticipatore di una visione religiosa ecologica. In lui è rinvenibile l’approccio metodologico della transdisciplinarietà come base epistemologica per il concepimento e la comunicazione di una visione unitaria dell’universo. Alla base vi è il desiderio da parte di Teilhard di oltrepassare una lettura dualistica della realtà, con tutte le conseguenze che ne derivano. Per adoperare le sue parole «la Stoffa dell’Universo (…) è tessuta d’un solo pezzo». Vale a dire non vi sono due distinte nature – la materia e lo spirito –, ma due aspetti differenti di un’unica realtà, la quale possiede una componente esterna, materiale e una interna, immateriale. La struttura del mondo è pertanto unitaria e continua: ogni elemento trova la sua collocazione dentro un’unica grande catena dell’essere che procede lungo una via ascendente.
Tale visione ha una conseguenza pratica immediata: non il rifiuto del saeculum, bensì la fedeltà alla terra e l’accettazione della vita nella sua pienezza. Scrive Teilhard: «Sembrava che esistessero solo due attitudini possibili per l’uomo: amare il Cielo o amare la Terra. Ecco che si scopre una terza via: andare verso il Cielo attraverso la Terra. Esiste una vera Comunione con Dio per mezzo del Mondo». E ancora: «In passato il cristiano veniva cresciuto nell’impressione che per raggiungere Dio occorreva lasciare tutto. Oggi scopre che non può salvarsi se non attraverso l’Universo e nel prolungamento dell’Universo».
Ma, nella prospettiva di Teilhard, il posto dell’uomo risponde davvero a una visione ecologica? Secondo il nostro, la materia vivente e intelligente, a un determinato stadio del suo sviluppo si è ominizzata, dando luogo a un’evoluzione biopsichica inarrestabile, irreversibile, teleologica. È la lunga vicenda di homo sapiens.
Ma a questo punto il passaggio compiuto da Teilhard pare arretrare rispetto all’apertura non-dualista sopra delineata. Nella sua visione l’uomo riacquista quella posizione centrale che già possedeva nella cosmogonia biblica (cfr. Genesi 1-3), nell’universo tolemaico e nell’immagine vitruviana del Rinascimento, che sono tutte il prodotto di antropologie marcatamente antiecologiche. Non a caso in quell’opera intensamente poetica che è l’Inno alla materia si dice che l’uomo deve incatenare e possedere la materia, poiché essa cede «solo alla violenza». Tali parole ricordano quelle di Francis Bacon, uno dei padri di quel metodo scientifico che ha condotto l’umanità a una visione meccanicistica del mondo.
Infatti, secondo il pensatore inglese la natura va resa schiava, «messa in ceppi», «costretta a servire», in quanto il compito dell’uomo verso la natura dev’essere quello di «strapparle con la tortura i suoi segreti». Del resto quale differenza tra l’Inno teilhardiano e la lode alle creature di Francesco d’Assisi! Dov’è la fraternità e la sororità con il sole, la luna e gli altri elementi? In Teilhard la natura diviene materia, sostanza generica fornita di massa, collocata nello spazio, della quale si deve occupare il sapere tecnico-scientifico.
Del resto lo stesso Teilhard aveva scritto nel 1946 (un anno dopo i bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki!) alcune riflessioni sulla bomba atomica, in cui considerava la forza nucleare non una minaccia per l’umanità e il pianeta, con il rischio di precipitare in una fase distruttiva e decreante, bensì come un evento che suscita «il gusto della supercreazione». «Luce abbagliante», «splendore inconsueto», «scuotimento formidabile»: sono alcune delle espressioni adoperate che rivelano tutte un esplicito apprezzamento. E ancora: «L’uomo si è scoperto sacro, non soltanto nella sua forza presente, ma in un metodo che gli avrebbe permesso di dominare tutte le forze intorno a lui». E poco oltre, nel medesimo scritto, avrebbe anche affermato che non si sarebbe soffermato a discutere o giustificare la moralità di un simile atto (liberare l’energia atomica per produrre la bomba).
Francamente, non possiamo seguire Teilhard lungo tale strada. Ne va imboccata un’altra, ben differente. Piace ricordare a questo proposito quanto sosteneva Gregory Bateson, soprattutto negli scritti dell’ultimo periodo della sua vita. L’idea che attraversa il lavoro di Bateson riguarda proprio la necessità di non interferire con la saggezza intrinseca dei sistemi viventi. Questo è il punto: entrare in un rapporto non manipolatorio dell’uomo con sé stesso e con la natura, fino ad accettare di essere parte di un processo più ampio che include l’intero mondo vivente e il mondo inanimato originario, per riconoscerci come parte di una più vasta saggezza che deve essere protetta dalla stessa ipertrofia conoscitiva
dell’uomo (ciò che i greci chiamavano hýbris). Con Pascal, «il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non conosce».

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Fotografia di Bruna Bonino

3. Prospettiva animalista
Appare chiaro che la visione di Teilhard segue criteri rigorosamente gerarchici all’interno del mondo naturale, al cui vertice troviamo sempre l’essere umano. L’immagine che predomina è quella della piramide. Ma, come ha ricordato anche Fritjof Capra, «l’aspetto importante dell’ordine stratificato in natura non è il trasferimento di controllo, ma piuttosto l’organizzazione della complessità». In una prospettiva ecologica l’immagine della piramide va letteralmente ribaltata e sostituita con quella dell’albero con tutte le sue ramificazioni (o del rizoma, come affermano G. Deleuze e F. Guattari, con il suo andamento reticolare e plurale), nel senso che ci troviamo dinanzi a reti di processi che presentano modelli di organizzazione plurimi, caratterizzati da vie complesse e non-lineari, lungo le quali si propagano segnali di informazione fra i vari livelli, con scambi in senso ascendente e discendente, creando un sistema di interconnessione non gerarchico, al cui interno va collocato l’uomo. Non basta. Giorgio Agamben, a proposito del posto dell’uomo nel mondo, ha elaborato il concetto di macchina antropologica (con un rimando alla distinzione – risalente all’antica Grecia – tra bìos e zoè: la vita qualificata, presente nelle facoltà superiori dell’uomo, da una parte, e la nuda vita indifferenziata, dall’altra). La macchina antropologica è quel dispositivo in base al quale si verifica la produzione dell’umano attraverso l’opposizione uomo/animale e umano/inumano. L’umanità viene definita attraverso la sottrazione e l’esclusione di ciò che, pure appartenendo alla vita, e alla vita stessa dell’uomo, non è reputato umano. L’uomo fa l’uomo separandosi dall’animale (un animale che risiede fuori, ma anche dentro di sé), affermando la sua superiorità sulle altre specie animali e quindi il diritto di considerare gli altri animali come oggetti posti sotto il proprio dominio assoluto (oggi merce per le multinazionali del settore agroalimentare). Con le parole di Isaac B. Singer, premio Nobel per la letteratura: «Nei loro confronti tutti sono nazisti; per gli animali Treblinka dura in eterno».
È lo specismo (termine coniato negli anni Settanta del secolo scorso, per calco su parole quali razzismo, sessismo o classismo, con l’intento di descrivere gli atteggiamenti umani contrassegnati da una discriminazione verso gli animali non umani). E anche l’antropologia teilhardiana, nel rapporto uomo/animale, sembra seguire l’indirizzo specista. Come in questa affermazione: «Le analisi della Scienza e della Storia sono molto spesso esatte; ma non tolgono assolutamente niente all’onnipotenza divina, né alla spiritualità dell’anima, né al carattere soprannaturale del Cristianesimo, né alla superiorità dell’Uomo sugli animali». Domandiamoci: perché continuare ad affermare la superiorità dell’uomo sugli altri animali e non considerarli invece come esseri creati per vivere insieme a noi, in relazione, dividendo la medesima terra, lo scorrere della vita e infine la morte? Pure in questo caso possiamo ascoltare oggi nuovi segnali di apertura, in direzione animalista e antispecista, presenti nel dibattito teologico contemporaneo. Non a caso si parla di teologia animale. Eugen Drewermann, ad esempio, afferma che «non è più possibile respingere l’idea che sia un unico flusso vitale quello che ha reso possibile e che continua a svilupparci come esseri umani», poiché la vita altro non è «se non uno scambio eterno, gigantesco, senza fine».
E, a partire da simili considerazioni, non essere insensibili al dominio che oggi, nel mondo globalizzato, estende i suoi apparati di controllo e amministrazione nei confronti della vita presa nella sua totalità: popolazioni umane, innanzitutto, ma anche specie animali non umane, sementi e colture, interi ecosistemi, fino alla stessa Terra e allo spazio.

4. Prospettiva post-coloniale
Come affermano in molti, sotto diversi aspetti Teilhard de Chardin è una figura profetica, ma si deve ammettere che è stato anche un uomo del suo tempo. Fu fino in fondo un europeo della prima metà del Ventesimo secolo. Un cittadino francese (quando la Francia era ancora una potenza coloniale), un ufficiale della Legion d’Onore e, soprattutto, uno scienziato fortemente segnato dal pensiero evoluzionista. Se è vero che, prima di raggiungere il Punto Omega, l’evoluzione cosmica si svilupperà per «diversi milioni di anni» (così, nel Fenomeno umano), e quindi sviluppando uno scenario completamente inedito, è vero pure che l’apprezzamento da parte di Teilhard della fase presente della noosfera (la sfera del pensiero, la rete, sempre più complessa che avvolge la Terra, prodotta dall’interazione fra gli esseri umani) finisce per essere un apprezzamento dell’occidentalizzazione del pianeta. L’entusiasmo per il progresso e, in particolare, per i progressi nei settori della scienza, della tecnica e del lavoro, rivelano un’implicita considerazione sovradimensionata nei confronti dell’Occidente e della sua storia, presentata come progresso tout court per il genere umano.
Ora, a distanza di anni, tale modello, riconsiderato anche alla luce degli studi post-coloniali nati negli ultimi decenni – i quali prendono le mosse dal crollo dei modelli di riferimento universalistici e pongono al centro dell’indagine critica i risultati del confronto tra culture in relazione di subordinazione – si rivela come una costruzione dai tratti eurocentrici.
Per diversi autori post-coloniali tutti gli umanesimi – nonostante le loro intenzioni – sono stati imperialisti, poiché hanno parlato negli interessi di una classe, un sesso, una razza, un genoma. In questo senso il nuovo umanesimo prospettato da Teilhard (pur rivolto verso «un avvenire cosmico ultra-umano») risulta plasmato su un modello di civilizzazione sorto in Europa che risente delle presupposizioni sorte da quel contesto. Di fatto è un costrutto storico, come tale contingente e variabile, tutt’altro che universale. Non solo: con la crisi globale in corso non è più possibile fare coincidere il destino dell’Occidente con il Punto Omega, altrimenti quest’ultimo diverrebbe quel punto di esaurimento e di involuzione, così come lo descrive lo scrittore statunitense Don DeLillo nel romanzo che s’intitola proprio Punto Omega.
5. Prospettiva pluralista
Come corollario all’eurocentrismo va considerato il cristanocentrismo teilhardiano. Teilhard, nel ricordo di Henri de Lubac, appare come un autentico religioso, un fervido credente e un vero figlio della Chiesa Cattolica, entro la quale volle restare sino all’ultimo giorno della sua vita. Infatti il movimento evolutivo ascendente da lui descritto (cosmogenesi, biogenesi, psicogenesi) trova completamento con la Cristogenesi.
Con la comparsa dell’uomo l’evoluzione cessa di essere passivamente subita, raggiungendo la fase di autoevoluzione e, a sua volta, questa perviene all’apice con l’apparizione di Cristo. Egli diviene così il centro dell’evoluzione e anche il suo fine, il Punto Omega. Il Logos incarnato, che era stato fino ad allora il motore invisibile dell’evoluzione, a questo punto si manifesta in forma visibile sull’asse evolutivo. Cristo, secondo Teilhard, diviene la guida, il completamento e il perfezionamento di ogni cosa. Con l’avvenimento dell’incarnazione abbiamo la piena immersione divina dentro la materia e dal centro di essa avviene la pianificazione dell’intero processo evolutivo. L’incarnazione promuove in questo modo la cristificazione di tutto il cosmo. In questo passaggio leggiamo l’impegno profondo da parte di Teilhard volto a rinnovare il cristianesimo, ponendolo in relazione diretta con il mondo contemporaneo, aprendolo al contempo a possibilità inedite. Ma il discorso su una cristificazione del cosmo cosa può dire oggi a un mondo in cui il pluralismo religioso e il dialogo interreligioso si presentano come passaggi inevitabili?
Nel corso di una lettera (a François-Albert Viallet, che fu a lungo un interlocutore privilegiato, prima di divenire un monaco buddhista) Teilhard scrisse che noi stiamo uscendo dall’età delle religioni per entrare nell’età della religione. L’idea di una confluenza delle tradizioni religiose in una sola è la conseguenza della convinzione di un progressivo processo di unificazione della noosfera. La questione è se questa confluenza sarà l’esito che condurrà a una super-religione che assorbirà, fagociterà e annienterà le altre. Logica evoluzione della sostanza cristiana? O, piuttosto, non è auspicabile uno sviluppo “post-religionale” (J.M. Vigil), vale a dire il riconoscimento che tutte le religioni sono costruzioni umane, all’interno di un divenire che prevede, nel corso della loro manifestazione, tanto un momento iniziale quanto uno conclusivo; tanto un’alba che un tramonto. Questo non significherà la morte della spiritualità, che costituisce il livello profondo della relazione dell’uomo con il mistero della vita e della morte, ma la fine della religione intesa come istituzione, come prodotto storico, come un’interfaccia che, dopo aver funzionato per molti
secoli, a un certo punto, avendo esaurito il suo ruolo, prende congedo. A Teilhard è attribuita la frase secondo cui fra la religione di oggi e quella dell’anno 10.000 vi sarà una differenza simile a quella che esiste fra la scimmia e l’uomo. Volendo spingere fino in fondo la valenza profetica di una simile affermazione – o quella già riportata all’inizio del presente scritto, in cui il gesuita parla esplicitamente di un desiderio di diffondere una nuova religione nel mondo – è possibile una lettura proprio in direzione di un paradigma post-religionale, come espressione adeguata a descrivere una trasformazione socio-culturale di grande profondità e dimensione, in cui una molteplicità di linguaggi, intrecciandosi, attraversano e percorrono la società.

6. Prospettiva epistemologica
Si sarà già capito che un aspetto problematico al fondo dell’intera visione di Teilhard riguarda proprio la forma e la funzione attribuite all’evoluzione. Per lui non si tratta di un’ipotesi, una teoria o un sistema. Scrive nel Fenomeno umano: «Molto di più: una condizione generale alla quale devono piegarsi e soddisfare ormai, per essere intellegibili e vere, tutte le teorie, tutte le ipotesi, tutti i sistemi». Questo modo di interpretare l’evoluzione merita uno sguardo approfondito.
L’evoluzione non appare qui come un dato elaborato dalla conoscenza, uno dei tanti modi di percepire la realtà: idea rerum, ens rationis, una costruzione concettuale per mezzo della ragione e del linguaggio di qualcosa che non esiste al di fuori della mente umana («Tutto ciò che è detto è detto da qualcuno», H. Maturana e F. Varela), una modalità di mappare un territorio vasto e sconosciuto (per usare un’immagine cara a Bateson), ma viene assunta sic et simpliciter come principio dogmatico, come verità assoluta. La scienza e la religione così si puntellano e si sostengono a vicenda. L’una spiega e giustifica l’altra. Verso quale esito conduce una visione del genere? Raimon Panikkar denunciava l’evoluzione come un’ulteriore forma di colonialismo culturale, come il risultato della fissazione classificatoria dell’Occidente, il quale, per non dare origine a un circolo vizioso, non ha mai pensato di classificare (e quindi mettere in discussione) proprio il criterio di classificazione.
Riportiamo le parole di Panikkar: «Il pensiero evoluzionista – sottolineo il pensiero e non un semplice evoluzionismo della specie – ci conduce a un monomorfismo culturale in grande stile, persino cosmico, alla Teilhard de Chardin. L’umanità procederebbe, nel suo insieme, in una stessa direzione. Ci sono, certo, dei meandri e degli spazi di libertà “culturali”, ma il punto omega, come la stella polare (o quella dei magi), sarebbe visibile all’orizzonte per tutti. (…) Insomma, il vicolo cieco, all’interno della cultura dominante, è insormontabile. Se si crede che sia la sola cosmologia vera, allora non bisogna illudersi sulla interfecondazione culturale».
Non solo: è ancora proponibile il pensiero evoluzionista come qualcosa di indiscutibile alla luce della riconsiderazione, oggi in atto, dei criteri di certezza e oggettività assegnabili alle scienze? Il mutamento di statuto del sapere, sia scientifico che religioso, sembra andare in altre direzioni rispetto a quella a cui si è ispirato Teilhard: invita al viaggio e alla ricerca, apre alla pluralità di visioni, raffina «la nostra sensibilità per le differenze e rafforza la nostra capacità di tollerare l’incommensurabile» ( J.-F. Lyotard). Ci stiamo davvero aprendo verso un sapere religioso riportato alla sua essenza (il mythos originario, quello che le prime comunità umane hanno iniziato a raccontare), profondamente rinnovato quanto ai riferimenti epistemologici: un sapere narrativo, una fede discreta, umile – senza dogmi, senza verità, senza dottrine – che riconosce di non poter pretendere di esaurire l’infinita portata del mondo che si sta esperendo e di cui si sta parlando.

Ernst Bloch

Ernst Bloch

7. Evoluzione e tempo elastico
Una delle categorie teilhardiane fondamentali si esprime nell’affermazione della dimensione temporale del cosmo, nella convinzione che il tempo è costitutivo dell’universo e, di conseguenza, che il cosmo è dinamico ed evolutivo in modo irreversibile. Il tempo diventa così una coordinata essenziale per descrivere qualsiasi presenza vivente nel cosmo.
Quello di Teilhard è un tempo progressivo, segnato, come abbiamo visto, dall’evento kairologico dell’incarnazione. La dimensione temporale ed evolutiva possiede, come una freccia scoccata, una sola direzione. Questo è un tratto che contraddistingue l’espressione della temporalità di gran parte del pensiero occidentale. Ma questo non è l’unico modo di percepire e concepire lo scorrere degli eventi. A tale visione si può opporre quella della presenza di un pluralismo temporale. Il pluralismo temporale poggia sull’idea che possano esistere modi differenti di vivere il tempo, con scansioni e ritmi diversi che moltiplicano,
piegano, curvano, frantumano il succedersi degli avvenimenti, degli stati d’animo, finanche delle stesse civiltà. Queste sono alcune delle acquisizioni più feconde a cui, in Occidente, è giunto il pensiero critico moderno e contemporaneo. Nello specifico, ci riferiamo a due autori, Walter Benjamin ed Ernst Bloch.
Per Benjamin, all’idea di storia come tempo lineare, vuoto e omogeneo ne va contrapposta un’altra, quella di una storia formata da trame di tempi diversi, che non sono necessariamente tendenze di progresso, ma che possono rappresentare processi creativi e ideativi che deviano rispetto al continuum storico-evolutivo, al punto da riuscire a infrangerlo e a interromperlo. Scrive Benjamin nelle Tesi di filosofia della storia: «La concezione di un progresso del genere umano nella storia è inseparabile da quella di un processo della storia stessa come percorrente un tempo omogeneo e vuoto. La critica dell’idea di questo processo deve costruire la base della critica dell’idea del progresso come tale». Passato e futuro devono scorrere l’uno nell’altro, liberamente, e, dall’interazione fra i due, può emergere quella materia multiforme su cui si gioca la capacità, tutta umana, di pensare e progettare, nel presente, la vita singola e collettiva. Con Bloch si va ancora più in là. Egli descrive il tempo come la struttura elastica di cui è composto il materiale storico. I ritmi e le scansioni temporali su cui scorrono gli eventi – riscontrabili ad esempio nel campo dell’economia, dell’arte, della tecnologia nelle differenti civiltà – devono venire rappresentati per mezzo di una molteplicità temporale, così che si possano individuare all’interno del passato numerose aperture e vie di fuga, alcune delle quali ancora inesplorate ma gravide di futuro. Bloch, a questo proposito, introduce il concetto di “asincronia”: gli eventi del passato non sono definitivamente sepolti, ma possono giacere dormienti, in attesa di risveglio. Sono questi i semi portatori di avvenire, che non hanno avuto, nel frangente in cui sono nati, l’opportunità di dispiegare le loro potenzialità, ma che attendono di venire riconosciuti e riscattati, sempre disponibili a una maturazione.
Non solo: dentro questo discorso Bloch introduce anche la distinzione tra futurum e adventus. Come nel caso del passato, anche il futuro è pregno di possibilità differenti. Da una parte ci sono quelle novità che altro non sono se non la mera declinazione in un tempo futuro di ciò che è e di ciò che da sempre è stato; qui il futuro è il prolungamento del presente e del passato. È il futurum: è, tanto per capirci, il futuro dei futurologi e dei tecnocrati del progresso e delle innovazioni a ogni costo. Non è ciò che qui ci interessa. Ma se nel passato si può esprimere una nostalgia del futuro, questa attende l’occasione per concretizzarsi e affrancarsi dal peso del tempo trascorso e dalla memoria del sempre uguale. Si tratta della risposta che il tempo fornisce alle attese e alle speranze di un diverso modo di intendere la vita e le relazioni fra i viventi. Allora, quando i fatti vengono incontro a queste attese e a queste speranze (e noi siamo in grado di riconoscerle e di esprimerle), il futuro che annunciano non è futurum, ma adventus. Accade, viene verso di noi (venit ad nos) recando qualcosa di nuovo. È il tempo plurale. Sta a noi saper discernere e operare, fra le possibilità che si presentano, una fecondità latente che può trasformare la vita.

8. Storia e paradossi
«Preferisco essere uomo del paradosso che uomo dei pregiudizi», affermava Rousseau, replicando a chi criticava le sue idee ritenute prive di costrutto. Anche noi desideriamo concludere proponendo un paradosso per la nostra epoca. All’interno delle pluralità delle scansioni temporali, di cui si è parlato, piace pensare che, oggi, una scintilla di adventus è custodita presso quelle popolazioni situate ai margini del progresso storico, ma fondate sulla non-competitività fra gli esseri umani e sulla cooperazione con le altre forme viventi, le quali partecipano tutte alla vita globale della Terra. Su ciò un contributo indispensabile è fornito dalla spiritualità e dalle teologie indigene. O, addirittura, questo seme di adventus può giacere latente presso civiltà scomparse, annientate in nome della modernità.
A questo proposito Mary Daly, teologa femminista post-cristiana, ha parlato di “futuro arcaico”, riferendosi all’epoca delle società matrifocali e del culto della dea – che dal paleolitico superiore ha attraversato il neolitico, fino a giungere all’età del bronzo – in cui fiorivano comunità pacifiche, fondate su una sostanziale uguaglianza sociale. Dal canto suo Ched Myers, teologo radicale nordamericano, parla di “futuro primitivo”, sostenendo che nella Bibbia è possibile leggere una critica della civiltà descritta nei termini di una regressione patologica piuttosto che un progresso della coscienza e della storia umane (con l’addomesticamento neolitico delle piante e degli animali si è ottenuta la domesticazione degli esseri umani e quindi il loro intrinseco impoverimento).
Questi riferimenti, a ben vedere, non sono così paradossali. Circa duemila anni fa, in una sperduta provincia dell’Impero romano si stavano diffondendo parole, ritenute sovversive o anarchiche, che raccontavano di amore verso il prossimo, di pace e di libertà. Chi le aveva pronunciate fu presto messo a morte, nella maniera ritenuta a quel tempo più infamante.
Gli storici di regime dedicarono poche righe a quel personaggio, reputando che non fosse necessario compiere ricerche più approfondite (ci fu chi, parlando di lui, ne storpiò perfino il nome). All’epoca nessuno avrebbe mai pensato che quelle parole si sarebbero diffuse nel tempo e nello spazio. Le cose, lo sappiamo, andarono diversamente. Siamo sicuri di non sbagliare nel dire che oggi una scintilla di adventus (ciò che Teilhard avrebbe chiamato “funzione cristica”) la possiamo ritrovare – con Teilhard, oltre Teilhard – presso quelle popolazioni e quelle civiltà che con la loro presenza testimoniano la speranza in un altro mondo possibile, ben diverso rispetto alla folle corsa della megamacchina globale.

Margutte ha pubblicato il lavoro di Federico Battistutta su gentile concessione dell’autore e della rivista “Voices”

La fotografia di copertina è di Bruna Bonino.

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