Il 25 aprile: non basta ricordare il passato, occorre costruire il futuro

Monumento resistenza Mondovì

STEFANO SICARDI.

Desidero anzitutto ringraziare calorosamente per il grande onore che mi è stato concesso di poter celebrare, nella mia città, il settantennio del 25 aprile.

Ogni anno che passa, inevitabilmente, ci allontana un po’ di più dalla storica data del 25 aprile 1945. In quest’occasione non lo avvertiamo, perché, appunto celebriamo il settantennale, che conferisce una luce, un calore, una commozione particolare alla ricorrenza. Ma comunque il tempo si accumula. E questo dilatarsi del tempo determina una serie di conseguenze, alcune positive, altre negative.

Le conseguenze positive potrebbero ricollegarsi al mestiere degli storici. E’ noto che il distacco anche temporale dagli eventi che si studiano è un elemento essenziale per affrontarli con maggiore equanimità e consapevolezza, senza che questo – sia ben chiaro – debba significare ingiustificatamente ridimensionarli o addirittura svalutarli.

Le conseguenze negative si ricollegano invece al progressivo attenuarsi di quel legame vivido, emotivo, esistenziale con periodi e momenti essenziali della propria vita personale o di una comunità. L’emozione non gioca solo brutti scherzi, rischiando di deformare ciò che si è vissuto; l’emozione è una componente essenziale del ricordo, lo preserva dal divenire sempre più “trasparente”, ce lo fa sentire ancora “spesso”, ce lo fa percepire davvero come parte di sé stessi, qualcosa che incide non solo o soprattutto sulla ragione, ma anche sui nostri sentimenti, che dà nutrimento ai valori affettivi delle nostre esistenze.

E’ inevitabile che questo legame affettivo (non saprei come diversamente chiamarlo) con gli eventi antecedenti e successivi al 25 aprile del 1945 sia sottoposto a dura prova dal tempo che passa. E ciò non riguarda solo il progressivo restringersi delle testimonianze dirette rispetto a quello che allora non solo accadde ma si “sentì” e si visse; riguarda anche i cambi di mentalità che si sono succeduti nel corso delle generazioni e che, di fronte ai grandi fatti e svolte più recenti (la caduta del Muro di Berlino e la crisi delle ideologie del XX secolo, la globalizzazione, le grandi migrazioni di popoli, le trasformazioni negli equilibri mondiali)sbiadiscono i pur grandi eventi precedenti, rischiando di farli percepire come irrimediabilmente superati.

La generazione cui appartengo, quella dell’immediato dopoguerra, pur non avendo vissuto in prima persona il secondo conflitto mondiale, la lotta di Liberazione, la Costituzione, l’esordio della nostra Repubblica non aveva bisogno di sforzarsi per “entrare” in quelle vicende; ne era già naturalmente immersa: sia per i racconti dei testimoni diretti (in famiglia, tra amici, nei partiti, nei sindacati, nelle associazioni), sia perché le coordinate ideali di quel tempo si proiettavano nel dopoguerra (fascismo-antifascismo; sinistra-destra; e poi Occidente-Blocco sovietico). Insomma, “capire” il 25 aprile era molto più facile per la mia generazione e per quelle che immediatamente seguirono rispetto alle generazioni odierne, ai ventenni e trentenni di oggi.

Eppure è proprio a loro, alle nuove generazioni dell’oggi (e del domani), che è necessario rivolgersi. Se il 25 aprile riguardasse solo i vecchi, gli anziani o, al più, quelli che lo stanno diventando non sarebbe che un mesto rito destinato piuttosto presto ad estinguersi. Ed è proprio quello che tutti noi che siamo qui oggi non vogliamo. Noi siamo qui perché assegniamo a questa data un valore politico e morale per la storia del nostro Paese e di tutti noi che riteniamo non sia inesorabilmente consegnato ad un pugno di passate generazioni, ma riteniamo, in coscienza, che debba costituire un prezioso serbatoio cui attingere per la costruzione del futuro.

E ciò che vorremmo trasmettere è un lascito non solo di razionalità politica (comunque assolutamente indispensabile per evitare fanatismi o improvvisazioni), ma anche di calore umano, di patrimonio di sacrifici personali ed emozioni, senza cui la razionalità corre il rischio di restare arida.

Ciò che accadde intorno alla data del 25 aprile del 1945 (negli anni immediatamente precedenti ed in quelli immediatamente successivi) è un condensato di vicende drammatiche e talora atroci, di acquisizioni talora repentine, di consapevolezze a lungo rimandate, di scelte coraggiose e spesso dolorose ma pure indispensabili per proporsi di voltare pagina rispetto al passato, come possiamo trarre dalle tante lettere, semplici, appassionate e commoventi non solo né tanto dei leader ma delle persone comuni, in particolare giovani, che vissero e si sacrificarono in quei tempi.

Una prima lezione, vorrei dire permanente, che possiamo trarre da quegli anni è la reazione che si innescò di fronte al momento più tragico della nostra storia unitaria. La disfatta, il marasma, il black out dei poteri costituiti, del tutto inadeguati a fornire risposte al dramma bellico e di occupazione in cui l’Italia era precipitata. Di fronte alla catastrofe, ai lutti, alla disperazione la reazione più tipicamente italiana avrebbe potuto limitarsi al fatidico “tutti a casa”. Rifugiarsi, come tante volte accadde nella tormentata storia delle genti italiane, nel proprio “privato”, nella cerchia il più possibile celata e protetta della dimensione familiare. A cui si sarebbe potuto aggiungere: “se la vedano gli altri, nazisti ed alleati, e quando sarà finita usciremo dai nostri rifugi”.

E invece le cose non andarono così. Vennero alla ribalta, per ragioni politiche e morali di diverso orientamento e per lealtà alla nazione, persone e forze che uscirono allo scoperto, in nome, vorrei dire, anzitutto di una rivendicazione di coraggio e di dignità. Liberare il Paese, costruire un’Italia migliore (anche se le idee su cosa questa Italia migliore dovesse essere erano molte e distanti), assumersi delle responsabilità, rischiare moltissimo e consapevolmente in prima persona (un qualcosa di molto lontano dagli stereotipi dei nostri difetti nazionali). A tutto ciò si intrecciarono anche vicende negative, drammatiche, talora crudeli. Ma sarebbe assurdo e antistorico ridurre gli anni della Liberazione a queste negatività.

Va quindi sottolineato che la Lotta di Liberazione espresse un concentrato di coraggio, sacrificio, assunzione di responsabilità, coinvolgimento, da ricordare con rispetto e commozione. La Liberazione insegnò al nostro Paese ed a tutti noi che vi abitiamo che anche di fronte a quella che potrebbe sembrare la catastrofe di tutta una Nazione, un gorgo che rischia di trascinarne a fondo tutti i suoi membri, è possibile e doveroso reagire alla rassegnazione, sviluppare anticorpi che si oppongano il disimpegno, battersi per un futuro migliore. Oggi, tra gli studiosi di diritto costituzionale, si insiste nel conferire centrale importanza alla dignità umana. Ebbene, la Liberazione rappresentò un forte e commovente sussulto di dignità, contribuì alla crescita di un popolo impaurito, contribuì a strapparlo da una mentalità di povera plebe rassegnata, per aprirgli un percorso di maturazione e consapevolezza.

E quel futuro migliore venne. Certo tante furono le delusioni, tanti i limiti del processo riformatore. Ma le cose cambiarono rispetto al passato, rispetto al regime autoritario e poi totalitario, alla folle guerra prima coloniale e poi mondiale, al collasso dell’Italia invasa e vinta.

I partiti e le forze sociali di allora, davvero molto distanti tra loro per idee e progetti politici futuri, seppero comprendere, sia pur tra molte difficoltà, l’importanza di ripartire, con un grande sforzo congiunto, da una tavola di valori valida per tutti; una tavola di valori che già camminava sulle gambe delle forze e delle persone che partecipavano alla Resistenza e che si precisò nell’elaborazione della nostra Costituzione.

Questi valori ci interrogano anche oggi, non sono espressione di epoche superate o di richieste stantie, ma, sempre che si voglia ascoltarli, continuano a parlare alla nostra contemporaneità ed al nostro futuro. Credo sia bene richiamarne almeno alcuni, come il lascito prezioso ed attualissimo di quegli anni.

Anzitutto la libertà. In quel tempo di guerra, di invasione, di tragedie collettive e personali, si manifestò, talora magari confusamente, anzitutto l’esigenza di tornare ad essere liberi e, per questo, di conquistarsi, di “meritarsi” la libertà. La libertà umana, per essere tale, va vissuta come una conquista consapevole; non sei davvero libero se ti concedono qualcosa, ma invece se lotti per ciò che credi debba spettare ad ogni essere umano. Questo unire libertà a responsabilità ci può essere molto utile per evitare il rischio (oggi incombente) di conferire alla libertà un valore puramente individualistico ed egoistico. Abbiamo bisogno di libertà che non si limitino alla richiesta di inseguire sempre nuove esigenze alla maniera di consumatori perpetuamente insoddisfatti, ma che si piantino saldamente in un orizzonte di principi e di responsabilità comuni a tutti. I nostri resistenti ed i nostri costituenti potevano intendere le ricadute della libertà che proclamavano in modi molto diversi, ma questa libertà fu sempre collegata ad una condizione di moralità personale e politica che oggi occorre più che mai affermare.

Il lavoro ed i lavoratori. Le forze resistenziali e costituenti avevano in proposito, ancora una volta, prospettive assai distanti, ma su un punto centrale trovarono concordia: la centralità del lavoro e di chi lavora, non – sia chiaro – come schiavitù o sfruttamento, ma come riscatto ed elemento di base ed unificante per tutti, di libertà e di equità. Il lavoro quindi come diritto, come obiettivo cui deve tendere l’azione delle istituzioni pubbliche; ma il lavoro anche come dovere (art. 4, 2° comma); un qualcosa che si è perso nel suo genuino valore, oggi schiacciato tra la crescenti dure necessità dell’esistenza ed il vertiginoso allargarsi delle sperequazioni sociali. E che va tenacemente ritrovato, nella sua dimensione di  contributo di tutto un popolo alla vita della Repubblica, in nome non dello sfruttamento ma della valorizzazione, appunto, dei lavoratori rispetto non solo alla loro personale condizione ma alla vita complessiva del Paese, per colmare le diseguaglianze di ieri e di oggi (secondo quanto è affermato nell’art. 3, comma 2, della Costituzione). Insomma: l’idea fu di ricostruire l’Italia sulla comune ed egualitaria dimensione del lavoro: un lavoro inteso non come vecchia o nuova schiavitù ma come dimensione di riscatto e di liberazione.

La storia degli ultimi decenni, a partire dalla dimensione mondiale, è andata in ben altra direzione, ma la centralità del lavoro e dei lavoratori, del lavoro come elemento di dignità ed equità e non di sfruttamento, è qualcosa che non dobbiamo lasciar spegnere ma dobbiamo consegnare alle generazioni future, contrapponendoci a quella che, negli ultimi decenni è stata chiamata “la lotta di classe dei ricchi contro i poveri”.

L’eguaglianza: non come meccanico pareggiamento che annulli le capacità e le creatività, ma come assoluta esigenza di contrastare lo strapotere dei privilegiati, di ieri come di oggi (si parla, non per niente, delle “società dell’«1%»), uno strapotere che schiaccia i meno fortunati nelle loro condizioni di partenza. L’eguaglianza non può essere solo politica, non può limitarsi ad una dimensione puramente individuale, ma deve costituire un valore regolativo per la società intera. E’ una questione anzitutto di giustizia, ma anche di utilità: come non si stancano di ripetere autorevolissimi economisti contemporanei (basti ricordare Joseph Stiglitz e Thomas Piketty[1]), la “diseguaglianza costa”: le società che accrescono la diseguaglianza, oltre a far crescere rabbia e violenza, si impoveriscono di innovazione e di talenti, si insteriliscono tra i pochi ricchissimi e i molti sempre più poveri. Uno scenario inefficiente, esplosivo, e prima di tutto, non dimentichiamolo mai, iniquo, ingiusto.

Pur nelle grandi differenze politiche di allora, dalla Costituente emerse uno scenario di rottura rispetto al passato sull’importanza dell’eguaglianza, personale, familiare, politica, sociale, religiosa, da non disperdere ma da consegnare al futuro delle nostre società e delle nuove generazioni.

Proprio il germe dell’eguaglianza, nonostante le tante difficoltà incontrate sul suo cammino, ha dato frutti nelle direzioni più diverse, a cominciare dalla parità di genere, tra uomini e donne. Si è aperto un percorso accidentato, non certo ancora concluso, ma che trovò allora, scontrandosi di petto con mentalità fortemente tradizionali, possibilità di manifestarsi. Alla Resistenza parteciparono anche le donne, come staffette, come combattenti, come deportate (per tutte voglio ricordare Lidia Rolfi), come fiancheggiatrici. Non per caso dopo la Resistenza parve indispensabile ammettere le donne al suffragio ed assicurare, allora molto sulla carta, la parità con gli uomini (come afferma l’art. 3 della Costituzione: eguaglianza senza distinzioni di sesso). Si aprì allora uno spiraglio che fu progressivamente allargato nel corso degli anni; se molto resta ancora da fare, basti pensare a ciò che, a differenza di ieri, affermano sempre più le nostre leggi, alla progressiva anche se incompleta conquista di lavori ed impieghi prima alle donne preclusi, all’evoluzione del costume e delle mentalità, che apre ad ulteriori consapevolezze.

Le persone e le associazioni. Già nella Resistenza e poi nell’Assemblea Costituente si comprese che la piena affermazione delle libertà e garanzie individuali doveva essere collegata alla dimensione associativa. Oggi si parla male di partiti e sindacati ed indubbiamente tanti errori sono stati commessi. Ma la dimensione associativa, in ogni – appunto – società è indispensabile. L’individuo solo di fronte al potere o è un povero servo o deve essere ricchissimo ed espressione di un potere economico molto forte per non essere schiacciato. La rete delle associazioni, dei tipi più diversi (culturali, economiche, sociali, politiche, religiose, ecc.), e tra queste in particolare dei partiti e dei sindacati, pur rinnovati rispetto agli errori del passato, è indispensabile per la democrazia e per la difesa delle libertà individuali. Non bastano internet o i social network, occorre una società forte e strutturata per evitare che il potere di governo ed i potentati economici diventino troppo forti, fino a divenire tirannici.

I diritti ed i doveri. Già prima ne ho accennato con riferimento al lavoro. La dimensione del dovere non come strumentale proibizione che suscita timore e desiderio di violazione, ma come ricerca costante dell’impegno, della sincerità ed integrità della persona nelle sue molteplici attività umane personali ed associate: se «i doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale» (come li evoca l’art.4 della Costituzione), fossero stati un po’ più ricordati e fatti propri nel sentire individuale e collettivo e fossero stati considerati un po’ più inderogabili avrebbero almeno contenuto le squallide e continue vicende di corruzione ed indecenza etica che rischiano di assuefarci una volta per tutte a costumi deplorevoli. Anche qui ci troviamo di fronte ad un lascito attualissimo sul quale moltissimo c’è da costruire.

Ed infine ricordo il principio sovranazionale. Già durante l’antifascismo e la guerra di Liberazione si comprese – pensiamo ad Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, ed al Manifesto di Ventotene[2], ad Alcide De Gasperi, e, anche in luoghi a noi più vicini, a Duccio Galimberti ed Antonio Repaci ed al loro Progetto di Confederazione Europea[3] – che il mondo post bellico dovesse rifiutare nazionalismo, bellicismo e xenofobia. E ciò fu recepito nella nostra Costituzione, con l’apertura all’ordinamento internazionale, la tutela dello straniero e del perseguitato, il favore per organizzazioni sovranazionali volte alla pace e giustizia tra le nazioni, il ripudio della guerra offensiva. Sono figli di tutto ciò proprio i giovani europei che oggi circolano liberamente per il loro continente, per studiare e per lavorare, vivendolo come se fossero sempre a casa a prescindere dai confini traversati; proprio loro sono figli e beneficiari di quelle premesse, anche se forse non si rendono pienamente conto che in questa loro attuale condizione non c’è nulla di ovvio, ma moltissimo di straordinariamente conquistato, e a duro prezzo, da chi li ha preceduti.

Certo, prima la divisione del mondo in blocchi contrapposti, poi il “disordine mondiale” post anni ’90 del secolo scorso ed il preoccupante crescere di conflitti fortemente connotati in senso etnico-religioso sono stati tutti fattori che hanno contribuito a vivere con difficoltà questa vocazione internazionale di pace, nei confronti degli altri Stati e degli altri popoli.

Ma anche questo è un messaggio assolutamente attuale che ci consegna il principio sovranazionale che sbocciò dal pensiero resistenziale e dai lavori della Costituente: pur nelle gravi difficoltà del presente, pur nella preoccupazione di difenderci e di difendere i perseguitati nel mondo, non dobbiamo mai smarrire la dimensione assolutamente prioritaria dell’incontro su quella dello scontro nell’affrontare i problemi non solo di politica internazionale ma anche di convivenza tra popoli e culture all’interno di una stessa realtà statale.

Insomma fare il possibile per evitare i “muri” e fare, del pari, tutto il possibile per costruire “ponti”. Ce lo ricorda uno scrittore di una terra martoriata – i Balcani – che ha vissuto in prima persona le lotte crudeli tra popoli e religioni, Ivo Andric’, il quale scriveva: «nessuno può immaginare che cosa significhi nascere e vivere al confine fra due mondi, conoscerli e comprenderli ambedue e non poter fare nulla per riavvicinarli, amarli entrambi e oscillare fra l’uno e l’altro per tutta la vita, avere due patrie e non averne nessuna, essere di casa dovunque e rimanere estraneo a tutti, in una parola, vivere crocefisso ed essere carnefice e vittima allo stesso tempo». Ma, non dimentichiamolo, a queste parole di dolore Ivo Andric’ contrapponeva l’immagine, la metafora, dei ponti: «di tutto ciò che l’uomo… costruisce ed erige, nulla è più bello e più prezioso per me dei ponti. Appartengono a tutti e sono uguali per tutti, sempre costruiti sensatamente nel punto in cui si incrocia la maggior parte delle necessità umane, più duraturi di tutte le altre costruzioni, mai asserviti al segreto e al malvagio»[4].

I ponti, fatti per congiungere e sforzare di capirsi, per non chiudere menti ed animi, per cercare, con tutta la energia e tenacia necessarie, convivenze rasserenate.

Ecco, credo che, nel nome delle generazioni presenti e future, sia nostro compito proiettare i valori affermati nel periodo della Liberazione e della Costituzione (ho cercato di richiamarne alcuni particolarmente importanti), nel nostro avvenire, sottolineandone fortemente il significato per l’oggi e per il domani.

Chi ci ha preceduto declinò certi valori nel momento storico in cui visse; sta a noi non lasciarli deperire o dimenticare ma affermarli, inserendoli nell’agenda delle sfide che stiamo vivendo, consapevoli del molto che quei valori, espressione non solo di ragione, ma di sacrificio, di affetti e di emozioni, hanno da dirci sulla strada della democrazia, della libertà e della giustizia.


[1] Rispettivamente: Il prezzo della diseguaglianza. Come la società divisa di oggi minaccia il nostro futuro (2012), trad. it. Torino, Einaudi, 2013; Il Capitale del XXI secolo (2013), trad. it. Milano, Bompiani, 2014.

[2] Sono ricordate tre edizioni del Manifesto: Per un’Europa libera e unita. Progetto d’un manifesto, con Ernesto Rossi, 1941 [prima stesura del manifesto di Ventotene, perduto]; Il Manifesto del Movimento Federalista Europeo. Elementi di discussione, in “Quaderni del Movimento Federalista Europeo”, n. 1, agosto 1943. [seconda stesura del manifesto di Ventotene]; Problemi della Federazione europea, con Ernesto Rossi, Roma, Edizioni del Movimento italiano per la Federazione europea, 1944. [terza stesura del manifesto di Ventotene]. La redazione definitiva del Manifesto consta di tre capitoli: La crisi della civiltà moderna, Compiti del dopoguerra, L’unità europea. La riforma della società.

[3] D. GALIMBERTI – A. REPACI, Progetto di costituzione confederale europea ed internazionale, prima edizione Torino, Fiorini, 1946 (con avvertenza di A. REPACI); seconda edizione Torino, Aragno, 2014 (con scritti di L. BONANATE, G. ZAGREBELSKY, L. ORNAGHI).

[4] Racconti di Bosnia, Roma, Newton, 1995, rispettivamente 19 e 156.

Il prof. Stefano Sicardi è docente di Diritto Costituzionale presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Torino