Fantastiche Alpi Liguri!

Gregoli ALPA

GABRIELLA MONGARDI

Non è facile recensire un libro di racconti, ciascuno dei quali meriterebbe un’analisi a sé stante perché ciascuno è un capolavoro di originalità, leggerezza e lavoro di cesello: si vedano a titolo d’esempio i due pubblicati su “Margutte”, Visioni lunari e I nani di Norea.

Ma una recensione articolata in quindici capitoli (tanti quanti sono i racconti del libro Alpi Liguri primo amore di Silvano Gregoli) diventerebbe essa stessa un libro – il che sarebbe francamente eccessivo, sarebbe far torto all’equilibrio e alla compattezza dell’opera, che contempera armoniosamente varietà e unità, offrendosi a diverse modalità di lettura. Si può ridere di fronte a una situazione tragicomica come quella della Slitta-barella o essere interessati alla ricostruzione della Storia di Artesina o dell’incidente diplomatico sfiorato in Venti di guerra a Sambuco; chi ama le montagne e conosce quelle monregalesi e cuneesi protagoniste di questi racconti avrà buon gioco a rivivere nel suo cuore le avventure e le scarpinate qui narrate; ma chi le Alpi Liguri non sa nemmeno dove siano non si deve allarmare, la qualità della scrittura e dell’invenzione letteraria assicura a tutti il piacere della lettura.

I quindici racconti sono disposti in ordine cronologico, a coprire un arco di cinquant’anni scandito dal rapporto con la montagna, “un Essere che già sapevo animato, e che di amore me ne dette ancora parecchio, sempre ricambiato” – come annuncia la conclusione del primo racconto, proemiale ed eponimo, indicando il più vistoso motivo conduttore del libro, ma non certo l’unico. Simmetricamente, nell’ultima pagina dell’ultimo racconto, La ricetta del genepì, l’autore si congeda dal lettore (e da se stesso giovane) con un polisemico “Hai fatto uno splendido viaggio. Non dimenticarlo mai”, che è anche una dichiarazione di poetica ‘proustiana’: la scrittura, attingendo alla memoria, consente di custodire intatto il nostro unico tesoro, il tempo che abbiamo vissuto, e ce ne rende consapevoli. Come afferma Gabriel Garcia Marquez, “la vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla”, e questo libro ne è una splendida conferma.

Al centro del libro, il breve racconto L’eclisse, un gioiello. È il ricordo dell’eclissi totale di sole del 15 febbraio 1961, che l’io narrante ha osservato da solo dalla Trucca della Tura. Già incluso nel precedente libro di Gregoli E laggiù, Mondovì, viene qui riproposto con lievi ritocchi, uno dei quali però particolarmente significativo: si tratta di un’aggiunta, che attribuisce a quell’eclisse il potere di avere attivato nel narratore “quella piccola regione del cervello che presiede all’irrazionale” – in altre parole, di avere fatto di uno scienziato un poeta, che unisce alla lucidità scientifica dello sguardo la vampa di una passione dominante, che forse non è tanto quella della montagna, ma quella del conoscere, e del narrare. Al talento narrativo di Gregoli la montagna non ha fornito che il materiale grezzo, e l’occasione-spinta.

Accanto ai racconti più scopertamente autobiografici e alpinistici, infatti, come Primi amori sulle Alpi Liguri, Cronache di alpinismo di provincia o Miracolo al rifugio, ve ne sono altri di taglio più storico-antropologico, come I nani di Norea o Il toro di Giordan, dove la molla della scrittura è la conoscenza e la testimonianza di un mondo arcaico, che segue leggi tutte sue, di fronte a cui arretra forse la razionalità scientifica, ma non l’arte del narratore-studioso, la sua potenza visionaria. In entrambi i casi, il lettore è ammaliato dalla forza dello stile, da una lingua ricreata dall’interno con disinvolta naturalezza ma in modo radicale, grazie alla dirompente originalità degli accostamenti lessicali e perfino della punteggiatura: uno stile ‘ben temperato’ che, dosando in modo inimitabile passione e ironia, razionale e irrazionale, autenticità e fiction, davvero tiene insieme tutto.

Ma la vera garante dell’unità del libro, la sorgente segreta della sua bellezza è… la Luna, la luna dei fisici, quella che è così potente da oscurare il sole, ma soprattutto la luna dei poeti, la luna che “di lontan rivela serena ogni montagna”, la “solinga, eterna peregrina” di leopardiana memoria. I raggi silenziosi della luna illuminano tante pagine del libro (voglio qui ricordare in particolare lo struggente “colletto notturno battuto dalla luna” evocato dalle remotissime lontananze di Nando delle montagne), ma i racconti più intensi la vedono protagonista o interlocutrice del narratore, nella sua pienezza mitica, nella coesistenza dei suoi significati scientifici e simbolici: si tratta dei tre racconti centrali, Visioni lunari, L’eclisse e Il diavolo del Vallonasso, a cui si aggiungono Il toro di Giordan e Il simulatore di montagne.

Attraverso la luna lo scrittore-scienziato Gregoli rappresenta l’opposizione tra scienza sperimentale e credenze magico-superstiziose, mentre lo scrittore fantastico che è in lui spalanca la porta al surreale e racconta due storie, quella del Vallonasso e quella del toro, in cui la luna produce effetti razionalmente inspiegabili e la divaricazione veridicità-verosimiglianza si fa estrema, diventa un conflitto ad altissima tensione, che resta ironicamente irrisolto.

L’effetto più misterioso della luna è però raccontato in Il simulatore di montagne, quando dalla lontanissima Australia la memoria ritorna “in un altro tempo, in un altro mondo”, a “una gita notturna, invernale, abbacinante, nel gruppo del Marguareis”, che in realtà è un “cammino iniziatico verso il mistero della luce della luna”, racchiuso nel ventre della montagna: è il mistero stesso della creatività artistica, che ha a che fare con la dimensione mitico-simbolica della nostra psiche, la “zona più remota e più oscura” dei nostri cervelli, la sorgente della Poesia che abita queste pagine.

S. Gregoli, Alpi Liguri primo amore, CDA e Vivalda Editori, Torino 2004 (oggi nel catalogo dell’editore Priuli e Verlucca)

(articolo originariamente pubblicato il 20 marzo 2015)