Dell’amore e del dolore, Marina Ivanovna Cvetaeva

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ANNA STELLA SCERBO

«[…] Riconosco l’amore dal dolore/ Lungo tutto il corpo./ Come un immenso campo aperto/alle bufere[…]

Riconosco l’amore dal lontano / Di chi mi è accanto.»

L’avventura terrestre di Marina Ivanovna Cvetaeva è trama romanzesca, leggenda per sua natura. Impossibile trattarla al pari di quella di altri poeti. Impossibile cercare paragoni e somiglianze. Marina vive delle due uniche categorie dell’anima a lei necessarie: l’amore e il dolore.

Nella Russia della Rivoluzione Bolscevica, il marito, Sergej Jacovlevic Efron, segue gli eserciti dei Bianchi. Lei rimane sola con due figlie, Alja e Irina. Irina muore di stenti. In Boemia, nel 1921, si ricongiunge al marito che vi si è rifugiato.

A Parigi arriva nel Novembre del 1925.

Irruente e ribelle, è isolata dalla colonia dei profughi russi. Non si piega a compromessi, non ostenta il suo volto antisovietico.

«Non c’è più nulla da fare! Gli emigranti mi cacciano via!… Ma sappiate una cosa: io sarò dalla parte dei perseguitati, e non da quella dei persecutori, sarò con le vittime, e non con i carnefici… »

Olga Ivinskaja (la “Lara” del Dottor Zivago):

«[…] I rapporti con gli altri emigranti peggioravano continuamente per via del carattere di Marina, altera, orgogliosa, regale, aggressiva, […] tutta pareti e tutta rifiuti».

Dentro a una sola esistenza di 48 anni, una teoria ininterrotta di morti, amori, miseria, separazioni, rinunce. Una vita tragica, condannata alla poesia come all’infelicità, mossa solo da meccanismi interiori. Un solo abito, due suole assicurate da pezzi di spago e solo raramente, un paio di valenky. Poiché la donna-poeta disprezza la vita dei calendari terrestri. Unica resistenza il Sogno. Unica “tentazione d’inferno”, la Letteratura. Unica unità di misura, l’Eterno. Unico sguardo, verso l’Alto.

«Non amo la vita come tale: la vita per me comincia ad avere senso – cioè ad acquistare significato e peso – solo trasfigurata, e cioè nell’arte».

«Il tipo di rapporto che io preferisco è ultraterreno. Il sogno, la lettera».

«Il poeta è colui che trasfigura tutto! … No, non tutto – solo ciò che ama. E ama – non tutto. […] Andare a piedi da qualche parte in capo al mondo (che adoro), sotto la pioggia (che adoro), per me è poesia. Per un altro è vita quotidiana».

Sergej Efron:

«Marina è una creatura di passioni[…]. Gettarsi a capofitto nell’uragano, è per lei necessità, aria della sua vita.[…] Quasi sempre, tutto è costruito sull’autoinganno».

Ogni destinatario della sua passione diviene nelle sue lettere un eroe onnipotente e fragile, bisognoso di lei. “Convincetemi che vi sono necessaria”, è la preghiera di lei, donna, a Pasternak, come a Rilke. Come agli altri amanti, di cui uno soltanto, fisicamente reale, in una Praga di squallidi rifugi. In lei, il complesso di Teti si fa smisurato e autodistruttivo. “Movente” per gli altri, passaggio necessario e fonte di metamorfosi di un itinerario in salita, Marina si annulla, offre l’incendio di sé che è tappa ineludibile di un lungo viaggio iniziatico. Destino ultimo, l’immortalità.

Le voci assenti la attraggono e lei affronta, senza esitare né temere, il diafano spazio dell’immaginazione, l’abisso di potenzialità rappresentato dallo Sconosciuto. Nasce il più epistolare dei romanzi di Marina, causa ed effetto del suo nuovo culto per il regno che, al di là dello sguardo, vive solo dell’assenza e delle parole dell’assenza, Nessun luogo terrestre, per Marina, possiede questa ineffabile fascinazione. Con Rilke, al quale era stata presentata per lettera da Pasternak, Marina non si vide mai.

Scrive la sera del 31 Dicembre del 1926, appena ricevuta la notizia della morte di Rilke in un sanatorio svizzero:

«Tu ed io non abbiamo mai creduto nel nostro incontro qui sulla terra – come non abbiamo mai creduto in questa vita, non è vero? […]».

Dopo la morte, nel 1926, Rilke cessa di essere un corpo – nello spazio – per diventare un’anima – nell’eternità. Assoluta la lontananza, assoluto l’amore per un unico oggetto, un’anima. L’assenza e la distanza delle sue parole di passione, ora coincidono con il Nulla Assoluto, con l’Ascoltatore Assoluto. Scrivere al più lontano e irreale dei suoi corrispondenti, rivela, a lei per prima, la natura essenzialmente monologica delle sue lettere.

Con Pasternak Marina si incontrò a Parigi una sola volta. Fu solo un bacio.

«Per quanto riguarda la vita con Voi […] riesco a farlo solo in sogno. E – splendidamente – come nel mio quaderno».

La nuova voce portava con sé un nuovo contenuto e uno spirito nuovo. Nella voce della Cvetaeva risuonava qualcosa di terribile e di sconosciuto, l’impossibilità, estranea a qualsiasi tipo di sovramondanità, di accettare il mondo. La Cvetaeva, poeta di questo mondo, poeta concreto, sapeva sempre dove dirigere la sua voce.

Continuava a salire sempre più in alto per allargare il campo visivo in cui era assente l’oggetto della sua ricerca.

Brodskij:

«Nelle sue poesie non c’ è nulla che sia poetico a priori, nulla che non sia stato messo in discussione[…]. Il verso della Cvetaeva è dialettico, dialogo tra significato e significato, tra significato e suono ».

La sua poesia è passione, entusiasmo, esasperazione dei sentimenti:

«Amore! Amore! Nei tormenti della tomba/ mi fai viva – turbata – palpitante ».

«Mio caro! Neppure la pietra sepolcrale/o le nuvole potranno separarmi da te […]».

Le pene d’amore si fanno invocazione dolorosa:

«[…] Amore mio, non mi riconosci?/ Sono la tua Rondine – sono Psiche».

Il pathos del sentimento d’amore ha la forma del punto esclamativo, su cui si appoggia lo slancio dei versi. Il trattino (altra componente essenziale), è invece uno scivolo nei vari piani del pensiero a sostituire verbi o locuzioni non necessari alla tesissima sintassi cveteviana.

Il ritmo, l’uso rigoroso delle rime e delle assonanze creano un timbro eccezionalmente alto e un’orchestrazione di suoni funzionali ai significati. Una vera partitura :

«Il mio libro deve essere eseguito come una sonata. I segni sono le note. Sta al lettore realizzare o deformare».

 «Io sono molti poeti insieme, e come questo abbia potuto in me affiatarsi è in fondo il mio segreto… »

«Le mie poesie non sono un baluardo contro la gente, sono porte aperte in cui ciascuno è libero di entrare. »

Non riconducibile ad una delle definizioni dell’età d’argento della poesia russa (simbolisti, acmeisti, cubo futuristi), Marina crea contrappunti semantici incalzanti:

«Scalzato dal trono,/ ricordati Febo!/ Scalzato – non guardava/ in basso – ma al cielo!»

Nel Giugno del 1939 è di nuovo a Mosca. Ha con sé il figlio Mur. Nel 1941 raggiunge Elabuga, nella Repubblica Autonoma Tatara. Alja è stata deportata. Efron, fucilato.

«Oggi son tornata dove nacqui/…Ecco quello che mi ricompensa:/ un abisso ha inghiottito tutti i miei/ e la casa paterna è devastata».

«Ho vergogna di essere ancora viva…[…] La mia vita è molto brutta. È una non vita. Adesso io sono uccisa, adesso io non ci sono e non so se ci potrò essere ancora…[…]».

Marina cerca disperatamente un alloggio. Pasternak, inutilmente intercede per lei. Marina si rivolge, anche lei inutilmente, al fondo per assistenza scrittori:

«Mosca non mi accetta e io non posso estirpare da me il senso del ‘diritto’… »

«È un anno che mi misuro addosso la morte. È tutto così mostruoso, così terribile … E io non voglio morire. Voglio non essere…»

La mattina del 28 agosto del 1941 rimane due giorni con il figlio. Il terzo giorno Mur esce. Marina cerca un gancio e una corda:

«Passante, fermati/ Strappa uno stelo selvatico per te/ E una bacca subito dopo, per me./ Niente è più dolce di una fragola di cimitero./ Ma non stare così tetro,/ la testa chinata sul petto/ Con leggerezza pensami,/ con leggerezza dimenticami…/ e che non ti turbi mai/ la mia voce sottoterra…/ Tutto passa, resta solo il vero…/ Vivere è splendido. Ma noi viviamo male».

Di Anna Stella Scerbo su Margutte:
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