Sulla Natura Degli Animali

Corrado
LORENZO BARBERIS.

21 marzo 2015, equinozio dell’eclissi, La Meridiana Tempo presenta una nuova, affascinante mostra: Corrado Ambrogio espone a Mondovì la sua prima ricerca fotografica.

Abbiamo già parlato di questo lavoro su “Margutte” in questa intervista con l’autore. Gli scatti sono quelli del “De Natura Animalium”, libro di Ambrogio edito da Marcovaldo con testi di Laura Pariani, e già presentato in una mostra al Castello del Roccolo, formato da 101 foto monocromatiche rappresentanti altrettanti animali.

Una ricerca che nasce a mezzo millennio esatto dal primo “De Natura Animalium”, attribuito a Alberto Magno padre dell’alchimia ed edito a Mondovì tra 1508 e 1513, in un volume poi divenuto un riferimento obbligato per i dotti d’Europa.

Emanuele Bo, nel presentare la mostra, ha infatti correttamente evidenziato il rapporto tra il rigoroso bianco e nero delle foto di Ambrogio e la lunga tradizione della stampa illustrata monregalese, che parte ancor più indietro (1476).

L’autore parte da infatti da piccole sculture non così dissimili nelle forme da quelle della sua ricerca plastica; sculture che sono però funzionali alla realizzazione della fotografia. Egli infatti con il suo scatto propone all’osservatore uno specifico punto di vista sull’immagine (che, spesso, perderebbe il suo senso osservata a 360 gradi). La ricerca è quindi eminentemente fotografica, pur partendo dalla scultura, che egli pratica dal 1989 e che identifica in maggior grado la sua produzione.

*

Massimo Centini, che ha indagato a fondo il Piemonte misterioso, offre una raffinata linea di analisi delle immagini dell’esposizione.

“Archetipo dei bestiari medievale può essere considerato il Physiologus, guida la cui origine è da ricercare nell’ambiente gnostico egizio tra il secondo e il quarto secolo dopo Cristo” spiega Centini, che analizza quindi come  il Bestiario sia, in parte, una sopravvivenza dell’antico valore sacrale dell’animale, all’apparenza cancellato dal monoteismo ma di fatto sopravvissuto in forme residuali e meno appariscenti del culto zoomorfo del politeismo.

Simboli che hanno una loro forza, una loro verità, poiché “tutta l’energia che l’uomo occidentale impiega oggi nella scienza e nella tecnica, l’uomo antico la consacrava alla sua mitologia” (C. G. Jung, L’Io e l’inconscio, Torino 1967, pag. 6) spiega Centini; e dunque “l’analisi del simbolismo dell’animale permette di arricchire il significato di una creatura, che in genere è visualizzata attraverso la visione storico-scientifica e marginalmente da quella mitica”. La modernità ha posto le due visioni come inconciliabili, ma Mircea Eliade propone la possibilità di una conciliazione. Ecco dunque che anche l’opera di Corrado Ambrogio, per quel che concerne il simbolo animale, diventa per Centini un momento importante di questo recupero simbolico.

ambrogio1

ambrogio2

ambrogio3

Immagini dalla inaugurazione.

Le immagini, seguendo la tradizione del bestiario, sono poi state corredate da brevi testi di Laura Pariani, autrice, tra gli altri, del recente “Questo viaggio chiamavamo amore” per Einaudi, dedicato alla vita di Dino Campana.

In qualche modo, volendo, si potrebbe collocare questo progetto di Ambrogio all’interno anche di un esperimento di quell’”arte sequenziale” di cui ha parlato il grande fumettista americano Will Eisner: la tradizione figurativa in cui si inserisce anche il fumetto (senza esaurirla) e di cui i bestiari fanno sicuramente parte: una interrelazione testo-immagine in grado di produrre un nuovo senso.

In fondo anche Ambrogio, parlando de “La carica dei 101″ (e all’interno del testo, appare una “Aristogatta”) per le sue figure che ampliano di due le bestie del testo originario, suggerisce una qualche aderenza di questi animali coi più celebri animali simbolici moderni, quelli disneyani.

*

Il testo è introdotto da una “Parola” di Bertoldo, il saggio contadino simbolo della sapienza popolare nella celebre opera (1670) di Giulio Cesare Croce, da cui si immagina scritto anche il testo del Bestiario (Bertoldo tornerà a conclusione della sua opera, ad esprimere un parere finale).

Un elemento che ci conferma l’idea di una disposizione “astuta” del testo, anche se apparentemente esso segue il rigore “oggettivo” dell’ordine alfabetico. Ma la selezione legittimamente arbitraria degli animali da rappresentare (l’Allocco e non l’Asino, ad esempio, che appare invece verso il finale come Somaro) o il modo di nominarli (l’Aristo-gatta, appunto) permettono in realtà di operare una possibile scelta nella lista e nelle sue corrispondenze interne.

Del resto i Bestiari, come ogni testo in parte “iniziatico” (basti vedere gli Arcani Maggiori dei Tarocchi, il caso più noto) si prestavano a una intricata lettura a più livelli, certo sempre col rischio di una sovrainterpretazione, spesso però non priva di spunti interessanti.

L’esordio della lista, ad esempio, con l’Allocco, simbolo per l’uomo della stupidità, ci rivela a sua volta adotta l’uomo come simbolo di idiozia nella sua razza. In parallelo, l’immagine di Ambrogio ci offre un allocco niente affatto “sciocco” nell’aspetto e invece decisamente inquietante e notturno.

allocco

Il contrasto immagine-testo si sviluppa poi tra l’eleganza essenziale delle immagini di Ambrogio, cui risponde un testo “bertoldiano”, ricercato nella forma ma volutamente ricco di scurrilità, in cui il “basso” scatologico tende a prevalere.

All’Antilope che si ribella al padre “calcagni calcagni gli corre la merda”; l’Aristogatta “ha il diavolo in culo” che contrasta con l’apparenza signorile dell’animale disneyano. Se non la crudezza del linguaggio, è la crudeltà a colpire il lettore: l’Assillo e la Balena, animali marini (uno notissimo, uno scelto evidentemente per il nome evocativo), sono accomunati da una malvagità che comunemente non assegneremmo al grande cetaceo.

Questa scelta di un testo a tratti spiazzantemente brutale magnifica nell’eleganza delle immagini un elemento di aggressività che altrimenti, forse, non avremmo colto: non saprei però se rivelando o risignificando il loro autentico valore. Ecco che l’Antilope, punita per la sua ribellione al padre, ha le corna effigiate come due enormi cesoie; e anche la pinna caudale della Balena ha in fondo una sua acuminatezza da Colombre.

antilope

Bufalo

Segue l’opposizione tra il sottomesso Bove e il Bufalo, solo apparentemente ribelle (che finisce per essere aggiogato “a far l’uffizio del bove”), che evidenzia nuovamente il tema delle corna, elemento chiave dell’alterità animale fin dai popoli preistorici, la cui prima divinità era il Dio Cornuto nelle sue molteplici incarnazioni.

La predominanza di nere corna di metallo (a volte spurie: la coda della Balena, le orecchie di altri animali, resi rigidi e metallici dalla texture del materiale fotografato) rievoca nell’animalesco il demoniaco, il diabolico della sapienza cristiana medioevale (un diavolo condannato ma anche visto con una certa ritrosa ammirazione).

In fondo, centouno sono le immagini, due più del Bestiario, una più dei cento canti danteschi (non solo Inferno, però), e dei racconti di quel Decameron del Boccaccio – commedia terrena – a cui il Croce del Bertoldo, per molti versi, si ispira.

E il tema “diabolico” è centrale nell’arte tardogotica monregalese: nei frescanti locali e soprattutto nell’Antichristus, pressoché coevo di questo Bestiario, che narra l’Apocalisse, o meglio il Juicio de la fine del mundo, con un tripudio di satanassi di varie fattezze. Ecco: spesso, nell’Antichristus monregalese, ma anche in altre opere religiose a stampa, oltre i diavoli incisi in dettaglio nei primi piani delle xilografie, troviamo anche dei diaboli minori di sfondo, appena accennati. Diavoli e demoni infernali che ritornano talvolta anche negli affreschi monregalesi, nella firma del Dragone, o sulle insegne delle armate apocalittiche che accompagnano Cristo al Calvario.

draco

Curiosamente, il Drago (d’acqua) è infatti, nel bestiario, l’unico il cui aspetto non deriva semplicemente dalla forma astratta dell’oggetto, ma riprende la texture decorativa di un nodoso bastone d’altri tempi, con sovrapposizione tra l’opera d’arte di Ambrogio e dell’anonimo ma efficace artigiano, solo in questo caso.

somaro

L’aggressività latente di questa selva di corna in vari aspetti si manifesta anche in sporgenze della testa in sé non aggressive come le orecchie del Somaro, che diventano due castranti coltelli nel momento in cui l’asino è paragonato sprezzantemente all’uomo che cerca moglie.

volpe

In altre immagini “orecchiute”, come in Volpe, bisogna ammettere che l’accentuazione dell’elemento aggressivo cede invece all’incredibile essenzialità e scarnificazione del segno, pur senza perdere nulla della sua forza comunicativa. Questo frammento metallico appare assolutamente minimale, eppure appena associato al concetto di Volpe è impossibile non scorgerne il muso astuto con una netta precisione.

L’aggressività fallica del Corno è invece ancor più evidente quando esso è, fantasticamente, Uno nell‘Unicorno, che non cerca le vergini per la sua purezza, come nel mito, ma al contrario:

Essendo bestia aggressiva di molte voglie,
c’è un solo modo di catturarlo:
gli si mette davanti una giovane vergine,
dimodocché, per la libidine impellente,
l’unicornio dimentica di attaccare
e posa la testa sul suo grembo.

ambrogio4

Altra volta invece l’elemento cornuto è multiplo, come nella Renna, rimando a Babbo Natale, che ovviamente non esiste (ogni volta che Babbo Natale si mette a cantare, / si voltano e si pongono a sedere comode / per ascoltare le parole della canzone. / Forse per questo protrarsi delle soste / a noi i regali non sono ancora arrivati.)

La figura del Cornabò, che come evoca il nome stesso e come il testo ricorda, ricorda nelle mandibole le corna del bove, diventa “punto di transizione” che mette in collegamento il tema delle corna con quello del Becco.

Quello della Cicogna (“il suo elemento essenziale è il becco”), il primo che appare, che penseremmo archetipamente fallico e “portatore di bambini” ma, anche qui, si tramuta innanzitutto in altro “riempie il gozzo d’acqua / e col suddetto becco s’apparecchia un clistere”. Oppure quello elegante del pappagallo, qui posto come Loreto, che però genera l’intera figura del pennuto da una sorta di coltellaccio-machete.

Il tema del becco introduce in due casi una connessione al Boccaccio come modello del basso bertoldesco. Molto psicanalitico, più per il testo qui che per l’immagine, comunque molto beccuta, è infatti il Falcone che richiama in modo volutamente molto criptico, nel testo, il Falcone protagonista del più psicanalitico racconto del Decameron (“il villano, che non è uso ai pastizzi elaborati / ma solo a pane e cipolle, / lasci stare il falcone / E più non aggiungo: / a buon intenditor poche parole, / chi vuol capire capisca.), quello di Federico degli Alberighi, in cui il pasto del falcone diviene quasi inquietantemente cannibalico (non a torto, mostrerebbe Freud).

Boccacceschi sono anche i Fenicotteri (qui col raro e bizzarro nome di Quasimeschino) ritroviamo il tema del più famoso animale dei cento racconti del Decameron boccaccesco, collegato all’astuzia di quel cuoco Chichibio che per molti versi anticipa la furbizia bertoldesca (l’episodio viene evocato anche nel testo, col riferimento a quella “singola gamba” della Gru). Si tratta, e anche questo è significativo, dell’unica opera di cui alcuni esemplari sono montati in modo permanente, al Lago del Tritone (sempre stando ai “Porti di Magnin” succitati).

fenicotteri

Il becco del Corvo invece appare particolarmente astratto rispetto alla figurazione dell’animale di partenza, tramutandosi quasi in una sorta di nero Pacman che diventa un punto intermedio tra il tema “cornuto” e quello del cerchio e della sfera, minoritario, che si afferma in altri animali (tra i primi, la Coccinella). La forma rimanda anche ai soldati dell’esercito ferroso di mille uomini (“M”) creato da Ambrogio per la Biennale del 2011, in ricordo dei mille garibaldini del centocinquantenario dell’Unità.

corvo

ambrogio6

Un esercito simmetrico all’esercito di terracotta dell’imperatore cinese, che al suo cospetto forse verrebbe sconfitta (se ha ragione Don Abbondio, quando si sente vaso di coccio tra vasi di ferro).

ambrogio5

ambrogio8

Il corvo insomma quasi anticipa forme tonde come L’Orso e il Pesce Palla si danno tondi come il Sole Nero dell’Eclissi, violando nella loro forma dolce un certo sostrato aggressivo che era emerso. E però questa circolarità nera, come quella del Sole Oscuro per gli antichi, è ugualmente poco rassicurante, a suo modo, come uno sguardo frontale nell’abisso che a sua volta guarda noi del Nietzche, che in fondo era già l’Allocco iniziale che ci restituisce con sguardo severo la patente di sciocco che gli vogliamo affibbiare.

Il tema del tondo, della sfera, viene ripreso a livello testuale (ma non iconico) nello Scarabeo Sacro: Alto e Basso vengono a coincidere, sapienza ermetica e sapienza popolare, culto astrologico solare e idolatria del bassoventre (e dei suoi prodotti).

Gli antichi lo definivano simbolo del Sole
e addirittura fabbricavano portafortuna
raffiguranti codesto insetto
con l’astro celeste tra le zampette.
In verità la sfera,
a cui lo scarabeo regolarmente s’accompagna,
non è altro che una pallotta di escrementi (…).

*

Altri casi particolari appaiono richiamare un criptico “ritratto d’autore”.

L’Elefantello Alpino ad esempio è l’unico dotato di una connotazione regionale precisa, le Alpi del Piemonte ove vive l’autore, inserite in modo incongruo, a meno che non si voglia evocare il passaggio di Annibale di cartaginese memoria. Su “Porti di Magnin”, Mamino vi vedeva quasi un ritratto en abime dell’autore, dato che “ha un fiuto portentoso per i tesori nascosti”, così come Ambrogio svela il volto nascosto delle cose nelle sue sculture e, ora, fotografie.

La Ragna, che appare anche nella copertina del libro, ha valore sicuramente particolare (a partire dalla sua valenza femminile), nel suo essere la “tessitrice” che rimanda a quel particolare tessuto che è il texto stesso, e che può forse richiamare l’Autrice stessa.

“Si ciondola dai fili tessendo la tela e aspettando clienti,
e non certo per una visita di cortesia e quattro chiacchiere…
Quando poi li ha catturati e avvolti in lacci sottili,
ràmpica di nuovo tra i travicelli del soffitto
ricominciando a tessere daccapo.
Si affeziona così tanto alle sue ova, che le porta seco
in una borsetta di seta caricata sul didietro.”

Il tema della Ragna torna anche, ribadito, nella Taranta:

Per San Paolo si sveglian le tarante
che pizzicano le ragazze in mezzo alle gambe,
mettendole in uno stato di frenetica agitazione.
Non corrisponde però al vero che,
quando codesta ragna punge,
in ventiquattr’ore il prete canti.
Certo col suo morso non vale medico né medicina,
ma il veleno si scaccia ballando sfrenatamente
per una notte intera al suono del tamburello e cantando:
«Benedicimus die, benedicimus dè,
benedice le tarante e quello che c’è».

amrbogio7

E l’opera si chiude con le inquietanti cesoie freudiane dello Zurlo inafferrabile, evocato assieme ad inquiete “formule necromantiche” che ne accompagnano le feste sacre e proibite.

Insomma, l’animale come simbolo, sì, ma simbolo indecifrabile e inquietante, in definitiva “maschera nuda” dove, se l’uomo cerca di specchiarsi, inevitabilmente si perde.

Il congedo di Bertoldo chiude rafforzando questa indicibilità del simbolo, e ricorda da vicino la conclusione del Nome della Rosa, dove Guglielmo da Baskerville si rende conto di non aver districato nel modo corretto la “bella e intricata matassa” e di esser giunto al colpevole per un errore nella decrittazione dei segni apocalittici, che non hanno in verità senso alcuno, mentre Adso da Melk confessa alfine di non sapere più cosa scrive o per chi.

Io che per tacere ho fatto il gozzo,
ora che ho scritto codeste pagine,
non so né a chi né perché lo feci:
tanto più che quella delle bestie
l’è una tal matassa
che difficile è trovarne il bàndolo.
Ma chi l’ha intrigata la strighi,
e chi ha mangiato i baccelli spazzi i gusci.
Ché, se io scrivo per chi non risponde,
gli è che sono proprio matto.

Insomma, un finale postmoderno per una rilettura postmoderna dell’idea di bestiario, non dissimile da quella riscrittura del Medioevo (e dell’Inferno dantesco) operata da Eco nel suo romanzo più famoso.

E anche questo percorso che si è tentato qui è dunque puramente approssimativo, soggettivo e indiziario, alla fine.

Non ci resta che invitare il lettore ad approfittare dell’occasione per visitare questa preziosa occasione d’arte e costruirsi così, se lo vorrà, il suo personale “Bestiario” mentale.